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Il lato oscuro del Super Bowl

Giovanni Battistuzzi

Lo spettacolo della finale della National Football League e le testimonianze delle donne degli ex giocatori che raccontano di danni cerebrali e uomini distrutti dallo sport

Il Super Bowl non è tutto lustrini, concerti, belle ragazze che sgambettano, baci appassionati tra Tom Brady (che se fossimo americani non diremmo tombrady chi?) e Gisele Bündchen. E' sì la finale della National Football League (Nfl), la lega professionistica statunitense di football americano, la partita più importante dell'anno, anzi forse “La partita”. Quella che Don DeLillo descrisse come "l'evento americano più americano che c'è, una manciata di ore nelle quali si può scoprire, o forse riscoprire, cosa vuol dire la parola America". Ma c'è altro. C'è il football, in primis, che è sport amatissimo oltreoceano e come ogni grande amore nasconde un tunnel oscuro, che di paillettes non ha più nulla, come certi squarci d'America, come le parole di Kurt Vonnegut: "Il football (americano) più che uno sport è una maschera che rende tutto migliore, che appare scintillante e meravigliosa, perché nasconde lo sporco e gli incubi che viaggiano ogni giorno con noi". E poi ci sono le storie che raccontano quel tunnel.

 

Storie raccontate e circolate prima su Facebook e che alla fine sono arrivate sulle pagine del New York Times. A raccontarle, partendo dal sua dramma personale, Emily Kelly, moglie dell'ex giocatore Rob Kelly. Kelly era, tecnicamente parlando, un safety, cioè un componente del pacchetto difensivo della squadra. Ultima salvezza per fermare i tentativi di meta degli avversari. Per cinque stagioni ha giocato nell'Nfl, dal 1997 al 2002, prima ai New Orleans Saints (quattro campionati) e poi ai New England Patriots (che si giocheranno la vittoria finale nel Super Bowl 2018 contro i Philadelphia Eagles ndr).

 

Si è ritirato a 28 anni a causa di un problema alla spalla dopo una botta subita durante una partita: dopo un placcaggio l'avversario gli franò sopra, lui perse momentaneamente i sensi, uscì qualche minuto e quando ritornò in campo si mise a giocare in posizione offensiva, senza sapere chi era e dov'era. Lo sostituirono, lo curarono e tutto sembrava essere passato. Ma non era così.

 

"Quando l'ho incontrato per la prima volta era il 2007, Rob aveva un modo di fare gentile e accattivante che mi ha colto alla sprovvista", scrive la moglie al New York Times. "Non avevo mai visto una partita di football nella mia vita, ma credevo agli stereotipi che circolavano sui giocatori: persone dure e aggressive. Lui però non era così. Non avevo mai incontrato un uomo così sensibile e tenero. Ho incontrato e amato una persona che non aveva paura di essere vulnerabile e di mostrare le lacrime". Nel 2009 si sposano, fanno due figli e poco tempo dopo "sono iniziate le insonnie e gli sbalzi d'umore, le crisi depressive". E' l'inizio di una caduta: "Le cose divennero sempre più spaventose. Iniziò a perdere peso. Sembrava che un giorno, improvvisamente, avesse smesso di essere affamato, si dimenticava di mangiare". Le visite dagli specialisti evidenziarono danni cerebrali permanenti dovuti al suo passato da giocatore di football.

 

Rob Kelly non è il solo, come lui sono in tanti. C'è Mike McCoy, otto stagioni nei Green Bay Packers tra gli anni Settanta e Ottanta, morto due anni fa, a 65 anni, vent'anni di questi passati con una forma acuta di demenza senile. Ci sono soprattutto Jamar Nesbit, dieci anni in Nfl, e sua moglie Tara che ha aperto un gruppo Facebook che in poco tempo si è allargato a oltre duemila donne che, mentre scienza e medicina discutono sulle conseguenze del football sulla salute, lì condividono la loro angoscia per gli infortuni e gli effetti a lungo termine delle commozioni cerebrali.

 

E' questo l'altro lato dello sport, quello che passa sotto traccia, l'altra faccia della medaglia di un mondo che molte volte esalta i suoi campioni, li idolatra e li pone su piedistalli temporanei, fatti di ghiaccio che si scioglie una volta arrivato il tempo del ritiro agonistico. E' qualcosa che è sempre successo, che racconta storie di uomini a loro modo incredibili, che una volta scesi dal palcoscenico perdono, almeno in parte, l'eccezionalità che sino a poco tempo prima hanno rappresentato. Il tempo degli addii allo sport è un salto nel vuoto. "C'è chi si reinventa una vita, magari sempre all'interno di quel circo che è lo sport, e chi perde la via", raccontò negli anni Novanta, anni dopo il suo ritiro, Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti Socrates, centrocampista che fu della Fiorentina, del Corinthians e della nazionale brasiliana.

 

E c'è chi una vita non può reinventarsela proprio a causa di quello che lo sport gli ha lasciato sul corpo e nella testa. Lo ricorda la storia di Seamus Elliott, ciclista irlandese e gregario di Jacques Anquetil, che nel 1971 si tolse la vita nell'officina di biciclette che gestiva a Dublino. Si era ritirato da quattro anni, dopo una carriera segnata da 23 vittorie, successi in tutti i tre grandi giri, una medaglia d'argento ai campionati del mondo 1962, e qualche anfetamina di troppo che gli aveva lasciato oltre a crisi depressiva anche persistenti "disturbi allo stomaco a causa, dissero i medici, del sistema nervoso sempre a mille".

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