Massimiliano Allegri (foto LaPresse)

Come si fa a non amare Massimiliano Allegri

Roberto Perrone

Molti trofei, pochi sentimenti. Il tecnico della Juventus non è come gli altri

[Questo articolo è stato pubblicato nel Foglio Sportivo in edicola sabato 2 e domenica 3 marzo con il Foglio del weekend. Potete leggerlo qui] 

 


  

Quando se ne andrà dalla Juventus, e potrebbe essere quest’anno considerato che un no al Real Madrid o club equivalente si può dire una sola volta nella carriera di un allenatore, l’epitaffio di Pavel Nedved sarà lo stesso utilizzato per Beppe Marotta: “Non è mai stato juventino”. Non vi sono certezze su quando Massimiliano Allegri chiuderà la sua esperienza bianconera, nel frattempo ha chiuso i profili social, Twitter e Instagram, su cui non era attivo come la figlia Valentina (che ha reso privato il suo e quindi si è ammessi previa autorizzazione), però commentava tutte le partite. L’ultimo post, dopo Bologna. La faccenda ha causato una piccola tempesta in rete. La versione ufficiale è che non aveva più voglia di dire nulla, “una scelta personale” filtra dall’ufficio stampa della Juventus. Quindi non si tratterebbe dell’intenzione di chiudere con i commenti dei mediocri e gli insulti dei violenti che commentano indefessi i cinguettii o le foto dei famosi. Sempre, a tonnellate se c’è di mezzo il calcio. Eppure di insulti Allegri ne ha presi tanti nella settimana seguita al “Wandazo” juventino con l’Atletico Madrid. Ne ha presi sempre tanti, le rare volte che ha perso. La verità è che il signor Max non è mai stato amato dai tifosi bianconeri. Accettato per i successi, lo strike di quattro scudetti e quattro coppe di fila, più due finali di Champions e un paio di Supercoppe italiane.

 

Va bene. Ma mai considerato parte della ciurma, parte della nave, come cantavano i dannati dell’Olandese Volante nel terzo capitolo di “Pirati dei Caraibi”. Bastava una derrota e il livore anti-allegriano usciva fuori. Dopo Madrid molti amici juventini mi hanno chiamato chiedendo, per lui, una seduta del tribunale del popolo. Il guaio è anche che Allegri, anche al Milan, non ha mai dato troppa confidenza, né ai giornalisti, né ai tifosi. Cordiale ma geloso della sua privacy. Per lui ci starebbe bene una citazione del profeta Geremia: “Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate dei buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario”. In molti gli hanno sempre contestato anche quel suo andarsene quasi di corsa dopo le partite. Quando arrivò al Milan, rifiutò l’invito a cena che il decano dei giornalisti al seguito gli fece e da allora non gli venne più perdonato nulla, fino al giorno del suo esonero. E pure dopo.

 

Il signor Max non è juventino ma neanche milanista, interista, romanista, o sassuolista. Allegri, come ha scritto giustamente Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, è un allenatore laico. Laico, eh, non comunista come temeva Silvio Berlusconi che lo guatava per capire se sotto il blazer portasse la maglietta rossa con la faccia del Che. Livorno non è più quella di una volta. Allegri è un professionista, con le sue idee, i suoi colpi di genio (Mandzukic all’ala), i suoi limiti (l’assenza dei colpi di genio, come quest’anno, anche per via dell’ingombro-Ronaldo), la sua vita dove non c’è solo il pallone. Secondo me, quando va a casa neanche guarda le altre partite. E’ un allenatore alla Fabio Capello, pure lui mai amato. Luciano Moggi, che juventino lo è davvero, a chi gli chiese conto di quella scelta, ricordando gli strali del “mascellone” contro Madama dalla panchina della Roma, replicò: “Ma ognuno nel calcio interpreta un ruolo, poi si cambia”.

 

I tifosi della Juventus, questa storia del ruolo, del professionista che fa il suo mestiere, un giorno qui e uno là, stentano ad ammetterlo, anche se il “qui” è positivo. Amano i fedeli alla causa non solo durante, ma anche dopo. Zibì Boniek non ha la sua stella allo Stadium perché, dopo, non si è comportato da vero bianconero. Carlo Ancelotti venne accolto da un’invasione di contestatori al vecchio Comunale. Gli riservarono, da allenatore in carica, e ora è anche peggio, le peggiori contumelie. Ebbe, poi, la iella di non portare a casa nulla e quindi venne mandato via senza i rimpianti dell’ambiente.

 

Anche al Milan non ha mai dato troppa confidenza, né ai giornalisti, né ai tifosi. Cordiale ma geloso della sua privacy

Quando il signor Max si presentò a Vinovo, il 14 luglio del 2014, gli ultrà lo accolsero al grido: “Antonio Conte, capitano, noi Allegri non lo vogliamo”. Ah, il passato, un’orrenda colpa. Non si erano accorti che Votantonio aveva messo in difficoltà il club, con quell’uscita di scena inaspettata/aspettata. L’allenatore che aveva risollevato le sorti bianconere se ne doveva andare a maggio. Il suo era stato un lungo addio, durante tutto l’anno sociale aveva lanciato più di un segnale in tal senso, concludendo i suoi pizzini indirizzati al club con un’insuperata metafora culinaria: “Con dieci euro non si mangia in un ristorante da 100 euro”. Il senso era chiaro, ma per chi non se lo ricorda, lo rendiamo più intelligibile: possiamo vincere in Italia, ma in Europa non andremo lontano. Poi il tecnico salentino restò per sfida, perché si accorse che Andrea Agnelli, a differenza dell’anno prima, in cui c’era stato già un tira e molla, aveva già pronto un sostituto, Sinisa Mihajlovic. Allora annunciò che restava. Lì i dirigenti bianconeri non capirono che era finita e che si trattava solo di nervi o forse volevano che se andasse lui, per evitare che i tifosi insorgessero. A rigor di logica, questi dovevano avercela con Conte, non con Allegri, imbarcato in corsa, senza aver contribuito alla costruzione della squadra. Il signor Max rischiava molto raccogliendo quell’eredità così pesante. Tre scudetti di seguito in Italia vinti dallo stesso allenatore: un’impresa riuscita, nel dopoguerra, a Fabio Capello e Roberto Mancini (ma il primo è il contestato titolo delle carte bollate). Una quaterna al lotto era più probabile. Allegri cominciò il suo mandato con sentimenti diffusi che andavano dal rifiuto al fastidio, fino allo scetticismo. Eppure si è accomodato due volte al ristorante da 100 euro, fermandosi prima del dolce, ma già le altre portate, due finali di Champions, non sono piatti, pardon, risultati da poco.

 

Cominciò il mandato con sentimenti che andavano dal rifiuto al fastidio, fino allo scetticismo. Eppure ha vinto tantissimo

Però proprio nel 2015, anno della prima doppietta più finale di Berlino, bastò l’inizio disastroso a far risalire il risentimento, che non gli è stato mai risparmiato, come nell’aprile del 2018, dopo la zuccata di Koulibaly che consegnò agli animi bianconeri il terrore di mollare al Napoli lo scudetto già vinto. Rabbia divisa con la squadra, certo, ma a lui sempre riservata. Così è bastata la sconfitta di Madrid per riscoprire il laicismo di questo allenatore che, come la famosa signora di quel prodotto di pulizia di qualche decennio fa, arriva presto, finisce (presto o tardi), e promette attaccamento alla bandiera tramite il lavoro, non con il coinvolgimento emotivo. Questo semmai, lo conserva per i suoi affetti. Sarà il suo ultimo anno? Chissà. Di sicuro dopo la sconfitta di Madrid gli hanno già servito il successore, uno “juventino” come Zinedine Zidane. Ma almeno quattro grandi club europei sono bisognosi di una svolta: Real Madrid, Chelsea, Bayern Monaco e Inter. L’impressione è che, dopo i social, il signor Max chiuderà anche la casa di Torino. E’ il momento giusto, cinque anni, nel calcio, è il numero perfetto. Con o senza Champions.