Tommaso Allan durante la gara del Sei Nazioni tra Italia e Scozia (Foto LaPresse)

Perché l'Italia del rugby fa così fatica

Marco Pastonesi

La partita contro il Galles al Sei Nazioni. Dieci ragioni per cui gli Azzurri non potranno mai vincere

Stadio Olimpico, oggi, sabato, alle 17.45. Secondo turno del Sei Nazioni 2019, Italia-Galles. Sul campo 15 contro 15, almeno apparentemente. Ma la verità è un’altra: nel Galles, con il Galles, per il Galles (che ha vinto le ultime 10 partite, compresa la prima del Sei Nazioni contro la Francia, a Parigi, 15-16 in rimonta), sul campo saranno molti di più e ci sarà molto di più. Ecco 10 buone ragioni per cui, a rugby, l’Italia non potrà mai battere il Galles.

 

Perché il rugby, in Galles, è educazione e religione, campanile e pub, senso di appartenenza e spirito di comunità, soprattutto eredità familiare e patrimonio genetico. Infatti, gli inglesi giocano a rugby perché lo hanno inventato (a Rugby), gli irlandesi perché adorano le risse e odiano gli inglesi, gli scozzesi perché sono i nemici storici degli inglesi (e la prima partita internazionale fu proprio Scozia-Inghilterra), ma i gallesi hanno un vantaggio su tutti gli altri: perché tutti sono nati o sono stati concepiti su un campo da rugby.

 

Perché il Galles è una squadra-villaggio, una squadra-paese, una squadra-nazione, e una squadra è infinitamente più di 15 uomini, o 15 donne, o 15 Under 20, o magari anche 15 bambini. Una squadra è sentimenti e solidarietà, è unità e unione, è legame (come gli otto giocatori che si legano: alle spalle, agli inguini, alla vita), finché il legame diventa un vincolo. Una squadra è sincronia e sintonia, è tecnica e tattica, è soprattutto armonia. È anche un’alchimia di abilità e capacità, un connubio di spirito e volontà, una miscela di talento ed esperienza, una comunione di anime. E una squadra può essere magica. È accaduto con Newport, squadra di club gallese, che sconfisse 3-0 gli All Blacks nel 1963, e con Llanelli, altra squadra di club gallese, che sconfisse gli All Blacks neozelandesi 9-3 nel 1972 (quella fu la celebre notte in cui i pub gallesi rimasero a secco) e poi i Wallabies australiani 13-9 nel 1992. Il giorno giusto, la squadra ideale, la partita perfetta.

 

Ian McKinley durante la gara del Sei Nazioni tra Italia e Scozia (Foto LaPresse)


 

Perché il rugby del Galles era, è e sarà sempre quello delle miniere, e i rugbisti erano, sono e saranno sempre dei minatori. Marco Bollesan, capitano e guerriero della nazionale italiana negli anni Sessanta, racconta di quella volta in cui gli azzurri affrontavano non il Galles (non eravamo ritenuti all’altezza), ma un club, il Pontypridd. Però la squadra di casa non c’era. Finché, vicino al campo, si fermò un treno, e dal treno scesero dei minatori, ancora sporchi di carbone e, in mano, una valigetta quadrangolare. Entrarono nello spogliatoio per cambiarsi: erano i giocatori. Le mogli con i bambini andavano a vedere i papà, le donne preparavano zuppe e birre. Poi, sul campo, i papà le suonarono agli italiani.

 

Perché l’Italia non potrà mai avere una storia ovale come quella di Scott Quinnell, di una dinastia gallese di rugbisti. Aveva 18 anni e non vedeva l’ora di esordire in prima squadra, a Llanelli, in panchina, pronto a entrare in campo ed esibire il proprio valore. Quando un compagno s’infortunò, Quinnell fu chiamato per sostituirlo: si tolse la tuta e cominciò a correre, desideroso di tuffarsi nella battaglia, ma si accorse subito che qualcosa non andava. Allora si guardò e capì: calzettoni e scarpe erano ok, ma non aveva i pantaloncini. Vero che voleva dimostrare di avere le palle, ma non proprio così.

 

Perché non esiste lingua più ignorante – l’ignoranza, nel rugby, è qualità, dote, complimento – del gallese, che ignora l’armonia e trascura le vocali. Per esempio, Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch: è il nome di un villaggio sull’isola di Anglesey, letteralmente significa “Chiesa di Santa Maria nella valletta del nocciolo bianco, vicino alle rapide e alla chiesa di San Tysilio nei pressi della caverna rossa”.

  

E a proposito di nomi, anzi, di cognomi. Nel 1909 due famiglie gallesi si sfidarono in una partita di rugby a sette: i Williams, dal Pembrokeshire, e i Randall, da Llanelli. In palio: 100 sterline. Si giocò sul campo neutro di Carmarthen. Vinsero i Williams. Perché c’è un’altra storia che bisogna conoscere per comprendere che cosa significhi il rugby per i gallesi, anche se tutto comincia dai neozelandesi che, nel mondo ovale, sono i gallesi dell’emisfero sud. Ed è la storia di una speciale richiesta di biglietti. Fu pubblicata su un giornale neozelandese, appunto, alla vigilia di All Blacks-Lions all’Eden Park di Auckland: “Tifoso di rugby desidera incontrare vedova benestante con due biglietti per la partita di sabato, in vista di futuro matrimonio. Si prega di spedire foto (dei biglietti)”. E la stessa tecnica è stata usata anche per un Galles-Inghilterra all’Arms Park di Cardiff.

  

Perché, a proposito di biglietti, e dell’eterna rivalità fra gallesi e inglesi, bisogna sapere che né all’Arms Park prima né al Millennium poi, i biglietti sono mai sufficienti. In una circostanza la rivalità raggiunse punte di febbre così alta che un anziano tifoso gallese ebbe un attacco di cuore ancora prima che cominciasse la partita nel vecchio Arms Park. Fu caricato su un’ambulanza e trasportato a grande velocità in un ospedale. Giunto al pronto soccorso, un medico chiese a uno degli infermieri dell’ambulanza se nelle tasche dell’infartato avessero per caso trovato il biglietto della partita. “Macché – sbottò l’infermiere -. Se lo sono presi quei farabutti all’Arms Park”. Perché in Galles si giura che il rugby è lo sport giocato in paradiso. Perché c’è un’antica regola che recita: non potrai mai battere il Galles, al massimo potrai segnare più punti.

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