foto LaPresse

il foglio sportivo

Piloni si nasce, a volte si diventa. Chi sono le fondamenta del rugby

Marco Pastonesi

Sono grandi e grossi, stabili e stagni, una squadra nella squadra. Perché se loro non tengono, ma retrocedono, mandano in crisi tutti. La finale dei Mondiali vista dai piloni

Sabato 2 novembre alle 10 (ora italiana – diretta tv in chiaro su Raidue) all'International Stadium di Yokohama (Giappone), Inghilterra e Sud Africa disputano la Coppa del Mondo di rugby 2019

  


 

Se fossero una casa, quelli bravi sarebbero le fondamenta, quelli scarsi la cantina. Se fossero un albero, tutti – bravi e scarsi – sarebbero le radici, poi dipenderebbe dal tipo di albero, e fra quercia e cipresso c’è una bella differenza. Se fossero una guerra, sarebbero comunque una guerra di trincea, combattuta da fanti, nel fango. Perché se fossero o terra o acqua o aria o fuoco, nessun dubbio, sarebbero soltanto terra. Se fossero una bicicletta, povere biciclette, ma se fossero una moto, da grossa cilindrata e probabilmente smarmittata. Se fossero un pallone, sarebbero ovviamente un pallone ovale (come si racconta: i palloni erano tutti rotondi fino al momento in cui proprio loro non ci si sono seduti sopra). Se fossero una birra, non sarebbero pinte, medie, stivali, colonne, ma botti. Se fossero una pizza, allora quelle a metro, o alla pala, o mangia-tutto-quello-che-puoi (e loro possono). Se fossero un gesto, sarebbero un poderoso abbraccio. Se fossero una parola, un pesante silenzio. Se fossero un suono, meglio lasciar perdere. Se fossero un mese, sarebbero agosto, perché agosto è il mese in cui si suda anche stando fermi, è il mese in cui anche il sudore suda, e loro sudano di brutto. Se fossero un orecchio, avete presente quelli a cavolfiore?
Piloni, il massimo del rugby. Piloni, i pesi massimi del rugby. I numeri 1 e 3 di ogni squadra, perché la numerazione (da 1 a 15, obbligatoriamente) li gratifica, li privilegia, li favorisce. Piloni, quelli che abitano nella prima linea del pacchetto di mischia, quelli che si afferrano e si spingono, quelli che si sradicano e si stappano, quelli che si piantano e si ancorano.

  

Piloni, quelli che hanno il collo più largo della mascella, quelli che dimostrano dieci o vent’anni più di quanto dichiarato sulla carta d’identità, quelli che correndo rimbalzano e che rimbalzando corrono, quelli che se in una squadra c’è chi suona il piano e chi lo sposta, loro lo spostano. Perché è gente da Gondrand, da Tir, da tram, da bassa manovalanza, da puro bracciantato. Gente che veniva reclutata fra gli scaricatori di porto, fra gli idraulici delle cooperative, o rubando spudoratamente spalle all’agricoltura, prima che il professionismo (anno della svolta: 1995) riuscisse a riprodurre tanta sana ignoranza (nel senso buono del termine: nel rugby l’ignoranza è un valore, un traguardo, anzi, una meta) sollevando artificiosi pesi in palestra.

 

Grandi e grossi, stabili e stagni, i piloni sostengono la mischia, che non è solo una casa, ma anche una famiglia, una comunità, una ciurma, una banda, un equipaggio di otto con (gli otto avanti, gli otto energumeni, gli otto colossi con il mediano di mischia, un piccoletto, almeno confronto a loro, che però li comanda), insomma, una squadra nella squadra, la prima delle due squadre perché il primo match si disputa lì. Infatti, due piloni che non tengono, ma retrocedono, significa mandare in crisi l’intera squadra: come una nave che fa acqua e costringe tutti gli altri a mettere delle pezze e a svuotare con i secchi, fra onde sempre più condominiali e correnti sempre più impetuose. I due piloni non sono neanche uguali: il pilone sinistro, che alla sua destra si lega e si salda con il tallonatore, è detto “loose-head” perché ha la testa libera, almeno a sinistra, invece il pilone destro, che alla sua sinistra si lega e si salda con il tallonatore, è detto “tight-head”, perché ha la testa incastrata fra quelle del pilone sinistro e del tallonatore avversari. Tant’è che tecnicamente i due piloni hanno caratteristiche (comprese quelle delle orecchie) differenti: il pilone sinistro è più scaltro, più abile, più mestierante, e deve sfruttare le sue capacità per condizionare la prima linea avversaria, invece il pilone destro è più fisico, più tosto, più forte, e da lui dipende spesso la stabilità dell’intero pacchetto di mischia. Comunque, che giochino (il verbo giocare è un eufemismo) a destra o a sinistra, i piloni godono dello stesso identico destino, e della stessa identica destinazione: andranno in paradiso, perché (così si recita nei pub, dal Galles alla Nuova Zelanda) l’inferno lo hanno già vissuto sulla Terra.

 

I piloni incassano e restituiscono, secondo leggi non scritte e regolamenti tramandati. I piloni sopportano e supportano. E come tutti i rugbisti, sostengono (il rugby è lo sport del pronto e del mutuo soccorso). Ma se gli altri giocatori sostengono di corsa, i piloni sostengono da fermi. In tempi amatoriali i piloni erano lentigradi se non pachidermici, giganteggiavano nelle mischie chiuse e poi assistevano al resto della partita, sorprendendosi le rare volte in cui si ritrovavano il pallone fra le mani, spesso non sapendo neanche che cosa farsene, invece oggi i piloni hanno acquisito non solo mobilità, ma anche velocità, e non solo forza, ma anche sensibilità, manuale e sentimentale. Le lacrime di commozione di Nepo Laulala, 27 anni, 1,84 per 116, pilone destro (samoano) degli All Blacks neozelandesi, il giorno in cui fu comunicata la sua inclusione nella squadra per la Coppa del mondo, hanno fatto il giro del pianeta. E il giro del pianeta hanno fatto anche le dimensioni di Frans Malherbe, 28 anni, pilone destro degli Springboks sudafricani: una montagna umana di 1,91 per 124 chili. E si sa che il futuro si chiama Bamba Demba, 21 anni, francese di origini mauritane (nato a due passi dallo Stade de France, alla periferia di Parigi), un parallelepipedo di 1,85 per 124 chili.

 


Frans Malherbe (foto LaPresse)


 

Piloni si nasce: per – appunto – ignoranza. Piloni si diventa: un fenomeno raro, ma succede. Piloni si slitta: a tallonatori, sempre in prima linea, una forma di evoluzione darwiniana. Piloni si cresce: in larghezza e in altezza che, dato il particolare tipo di gioco spesso orizzontale, significa lunghezza. Come nel caso di Andrea Lovotti, pilone sinistro degli Azzurri. “Lovo” (più diminutivo che soprannome, se fosse stato toscano avrebbe avuto un profetico senso rugbistico) ha cominciato a scuola: “Quando un allenatore del Gossolengo è venuto a predicare passaggi e placcaggi, spiegare calci e touche, segnare e sognare mete. A me, che giocavo a calcio come portiere, piaceva uscire e buttarmi. Da rugbista, ho scoperto che avrei potuto farlo comunque. E che non avevo paura, ma anzi, piacere. Sarà per questo che con il rugby è stato amore a prima vista”. Da terza a tallonatore, infine a pilone, “Lovo” dice che “il bello del pilone è la sfida fisica, ma anche tecnica, è – allo stesso tempo – una lotta personale e di squadra”, “il ruolo del pilone è sempre quello, ma le sue caratteristiche sono cambiate, evolute, perfezionate, i piloni di oggi sono più alti e più mobili, io ho dovuto adattarmi cercando di diventare anche più solido” (“Lovo” sodo), “la prima mischia della partita è indicativa, ma non definitiva, c’è tutto il tempo per modificare assetto e impatto”, “dopo ogni mischia i piloni hanno meno gambe”.

 

Ormai i piloni, sottoposti a pressioni da architettura stradale, durano un tempo (40 minuti) o poco più. È prassi cambiarli dopo 5-10 minuti del secondo tempo, altrimenti la casa-mischia rischia di crollare. Ma i piloni rimangono nella storia, quella del gioco e anche quella della letteratura. Come Enzo Dornetti, pilone (e oggi team manager) dell’Asr Milano, titolare dell’aforisma: “La prima volta che ho sentito la parola Viagra, pensavo che fosse il cognome di un pilone argentino”. Come Jason Leonard, 114 “caps” nell’Inghilterra (record) di cui 22 in Coppa del mondo (record), e campione del mondo nel 2003: “Giocare in prima linea, uomo contro uomo, è un onore. L’unico svantaggio è che spesso gli altri giocatori li incontri solo nel terzo tempo” (il terzo tempo è quello che si celebra alla fine della partita, mangiando e bevendo tutti insieme, arbitro compreso). Come Antonio Raimondi, pilone del Cus Milano (e oggi apprezzatissimo telecronista), che così si racconta: “Da piccolo si è beccato il morbillo, ed è guarito. È stato colpito dalla varicella, e ne è uscito. È passato attraverso influenze e otiti, ma senza strascichi. Poi un giorno si è ammalato di rugby, e addio, non si è trovato rimedio. Da quel giorno non è stato più lui, anche se continua a farsi chiamare Antonio Raimondi. Nelle giovanili le ha provate tutte, da pilone a mediano di apertura, con esiti facilmente immaginabili, salvo tornare indietro e autocertificarsi pilone sinistro e stop. Stop nel senso che ha cominciato a occuparsi di una zolla del campo”. Perché ai piloni storicamente non difetta mai il buonumore, e qualche storia da raccontare ce l’hanno sempre. Questa è il pezzo forte proprio di Jason Leonard. Rugbista, divano, giornale: la moglie gli piomba addosso brandendo una padella. “Che c’è?”, fa lui. “Quel pezzo di carta trovato nei tuoi pantaloni con su scritto Mary Ellen” lo investe lei. “Ma dai. Due settimane fa sono andato alle corse, Mary Ellen è il nome di uno dei cavalli su cui ho scommesso”. Tre giorni dopo: rugbista, divano, giornale, la moglie gli piomba addosso colpendolo – a freddo – con la padella. “Ma che c’è?” fa lui. “C’è che quel fottuto cavallo ha telefonato”.

 

Piloni, il bello – si fa per dire – del rugby. Perché nonostante la loro pesantezza, riescono ad affrontare la vita con leggerezza. Come Andrea Lo Cicero, il Barone, che si è riciclato giardiniere alla tv. Come Martin Castrogiovanni, per tutti Castro, che vanta partecipazioni a “Ballando con le stelle” e “Tu si que vales”, e la cui ultima apparizione è stata da ballerino ad “Amici Celebrities” (che cosa volete che sia l’eliminazione al primo turno per uno che è riuscito a sconfiggere un tumore per il quale gli avevano dato sei mesi di vita). La verità è che tutti avremmo bisogno di un amico pilone. Capace di entrare in campo anche contro gli All Blacks dicendo che stavolta ce la giochiamo, di uscire dal campo dopo aver subito tanti-a-pochi o tanti-a-zero dicendo che stavolta ce la siamo giocata, di aver cominciato a giocare perché il primo giorno i genitori hanno sbagliato il campo, di aver smesso di giocare senza aver ancora capito la regola del fuorigioco.

Di più su questi argomenti: