Non c’è nulla di pol. corr. nel fair play del rugby, davvero in campo se le danno di santa ragione e poi basta (nella foto LaPresse, Sebastian Negri e Sergio Parisse in azione contro la Francia)

Ci salveranno le ossa rotte dei rugbisti (e la birra a fine partita)

Piero Vietti

La sconfitta a Roma contro la Francia, le lacrime di capitan Parisse, i tifosi mescolati durante il terzo tempo e l’importanza di cadere per mandare avanti i propri compagni

Non sappiamo se, come diceva lo scrittore ed ex giocatore inglese David Storey, il rugby sia “l’ultimo sport da uomini rimasto” – intuiamo però quanto sia rischioso dirlo in questi tempi di femminismo arrembante e di Nazionale italiana femminile che vince, a differenza di quella maschile. Quello che sappiamo – per averlo visto la prima volta dal vivo sabato scorso, allo Stadio Olimpico di Roma – è che è uno sport che indossa in maniera invidiabile tutti i luoghi comuni che gli hanno cucito addosso in questi anni. Eppure nessuno pare fuori misura o forzato. Sugli spalti i tifosi si mescolano tra loro nonostante in campo si giochi Italia-Francia, si fischiano poco o nulla gli avversari, quasi li si applaude quando fanno meta. “Il rugby è guerra, ma dopo viene la pace più bella del mondo”, diceva l’ex giocatore e allenatore della Nazionale Marco Bollesan. Non è una frase da manuale di conversazione sullo sport con la palla ovale, è quello che effettivamente succede a fine partita, durante il terzo tempo. Non abbiamo visto i giocatori italiani e francesi bere birra insieme – li abbiamo visti abbracciarsi alla fine in campo, in un gesto che a noi calciofili ha ricordato il motivo per cui anche nelle “nostre” partite da qualche anno c’è la stretta di mano agli avversari: così tenacemente forzata nel calcio, così meravigliosamente spontanea nel rugby – ma lo abbiamo visto fare dai tifosi.

 

È la mia prima partita di rugby dal vivo, qualche anno fa avevo subito anch’io il fascino mediatico della palla ovale italiana, negli anni successivi all’ingresso degli Azzurri nel fu Cinque Nazioni. Ricordo una partita vista in tv, a San Siro contro gli All Blacks, l’haka non aveva ancora stufato, avevamo perso ma ce l’eravamo giocata, come quasi sempre succede. L’interesse era poi scemato – in Italia se non parli di calcio sembra che non parli di sport. La partita contro la Francia, l’ultima di questa edizione del Sei Nazioni, vinta tanto per cambiare dal Galles, era una partita che avremmo potuto vincere – ma l’esperto direbbe “dovuto”. In pieno cambio generazionale e senza più niente da chiedere al torneo (riecco i luoghi comuni) i francesi hanno giocato una partita intelligente e in difesa, colpendo quando dovevano colpire, senza troppi sforzi. Questo l’ho capito alla fine, dopo oltre un’ora passata a chiedermi perché l’arbitro a seconda delle volte facesse ricominciare il gioco dopo un fallo con una mischia o con una punizione, o perché il nostro numero 10 buttasse la palla in fallo laterale quando ci fischiavano un fallo a favore. L’ho capito perché orecchiavo cosa diceva accanto a me in tribuna un giocatore di rugby (lo so ma non ho le prove) che chiamava tutti quelli della Nazionale per nome e spiegava ai suoi vicini di posto quello che stava succedendo in campo. L’Olimpico era praticamente pieno – non male considerando che sono quattro anni che non vinciamo una partita del Sei Nazioni – abbiamo fatto due volte la ola e altrettante noi della tribuna l’abbiamo abortita, beccandoci i fischi della curva da cui era partita (va bene il fair play, i valori e la condivisione, ma erano i minuti finali e stavamo a mezzo metro dalla meta da un quarto d’ora, non distraeteci). Non serve essere esperti di rugby per capire che il capitano degli Azzurri, Sergio Parisse, è un signor giocatore. Il premio come man of the match che gli hanno dato a fine partita potrebbe anche essere stato un tributo alla sua carriera – quella di sabato scorso con tutta probabilità è stata la sua ultima al Sei Nazioni – ma per quello che si è visto in campo era più meritato della vittoria dei francesi. “Oggi poteva essere una bellissima giornata – ha detto dopo in conferenza stampa, quasi in lacrime – e mi dispiace per Leo, perché non si meritava di chiudere così. Spero che non sia così grave e potrà giocare il Mondiale”. Leo è Ghiraldini, infortunatosi durante la partita e uscito tra gli applausi.

 

 

“Dio ha inventato la birra per impedire agli avanti di conquistare il mondo”, dice un motto britannico. Gli avanti sono i giocatori di mischia, e quando li vedi spingere così sul campo pensi che al solito gli inglesi (quando si tratta di sport) non si sbagliano quasi mai. Già, la birra. Archiviata l’ennesima onorevole sconfitta, si lascia il campo di battaglia non per tornare a casa mesti e incazzati come dopo una 3-0 subìto dalla propria squadra di calcio. Affinché il Grande Luogo Comune sia completo, non si può non vivere il Terzo Tempo. La zona fuori dall’Olimpico è una enorme festa: ci sono stand di birra Peroni ovunque, si preparano hamburger, hot dog, c’è un grande palco su cui suonano i Boomdabash (Sanremo ha fatto tornare di moda persino i gruppi salentini), c’è Radiofreccia che mette la musica e dopo la prima birra non pensi più che siamo appena stati battuti dalla Francia. Nella pancia dello stadio Parisse dice ai giornalisti che “se a voi dà fastidio, se a voi rode, vi posso garantire non siete neanche minimamente vicini al sentimento che sto provando io e che proviamo tutti insieme”. Là fuori sembra non rodere a nessuno, invece. Ci sono francesi che si aggirano vestiti da Asterix e Obelix, che sudano dentro a costumi da galli (si diceva dei luoghi comuni, no?), battono il cinque ai tifosi italiani, scherzano con i bambini che corrono con una palla sotto al braccio, sfondando immaginarie linee difensive composte dai passanti. Dunque i bambini non sanno giocare solo a calcio, se gli dai un ovale improvvisano mischie e touche sul marciapiede. Non solo loro, però: dopo la seconda birra anche gli adulti si mettono a correre con la palla sotto al braccio, fintano placcaggi improbabili nel piazzale davanti alla Curva Sud.

 

 

Non si può cadere senza farsi male, sul cemento del Foro Italico. Eppure cadere è la regola base del rugby e farlo sul prato del campo è necessario per fare avanzare la squadra. Una persona mi ha raccontato che la cosa che più colpisce chi comincia a giocare a rugby da adulto è che ci sia qualcuno che è disposto a prendersi un pestone per permetterti di andare in meta. Cadere e rialzarsi, prendere botte, pugni, calci, qualsiasi cosa purché la palla non si perda. Cercando di capire cosa stava succedendo in campo, poco prima, avevo notato che per un sacco di tempo durante la partita la palla non la vedi nemmeno. Eppure c’è, ed è custodita da quei corpi enormi, stretta dalle mani di uomini disposti anche a rompersi un ginocchio pur di non lasciarla andare. E un ginocchio qualcuno se lo è rotto davvero, durante Italia-Francia: è il già citato Ghiraldini, che esce in barella, le mani sul volto, poco dopo avere ricevuto una carezza da Maxime Médard, un avversario. Non c’è nulla di politicamente corretto nel fair play del rugby, davvero in campo se le danno di santa ragione e poi basta. “Amo il rugby non perché è violento, ma perché è intelligente”, ha detto la scrittrice Françoise Sagan. Non è uno sport da protagonisti, e l’abusata analogia con la guerra è in realtà la migliore possibile. Una guerra non la vinci da solo, e servono un sacco di cadute prima di sconfiggere l’avversario. Durante il terzo tempo, quando la terza birra ti ha ormai fatto fraternizzare con chiunque passi dalle tue parti, i giocatori della Nazionale salgono sul palco. Vengono applauditi nonostante la ventiduesima sconfitta di fila, Parisse ringrazia i tifosi, promette partite migliori al Mondiale, tra la folla ci sono anche molti francesi, applaudono anche loro. Non è solo merito della birra, però. Non c’è nulla di più vero dei luoghi comuni, e lo spirito che si respira nel terzo tempo non ha molto a che spartire con certi show patinati in cui stanno trasformando il contorno di alcune partite di calcio, in stadi riscaldati che coccolano il pubblico come a teatro. Ci salveranno le ossa dei rugbisti, rotte perché il compagno di squadra potesse andare in meta.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.