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Il divo Nigel Owens e l'eccezione del rugby in un fischietto

Marco Pastonesi

Protagonista, senza volerlo. Modello, senza cercarlo. Personaggio, senza pretenderlo. Così il gallese, che arbitrerà l’Italia nel test match contro l'Irlanda, è diventato il migliore al mondo

È ospite degli spettacoli tv del sabato sera, ma non è un cantante e neppure un attore. Conduce un programma di quiz, ma non è un presentatore. E’ invitato a tenere conferenze nelle università, ma non è un professore accademico. E’ editorialista sugli inserti domenicali dei quotidiani e opinionista nei canali televisivi, ma non è un giornalista. Ha scritto un’autobiografia, ma non è uno scrittore. Nigel Owens è un arbitro. Il più celebre arbitro di rugby nel mondo. E sabato sarà il trentunesimo uomo in campo nel primo dei quattro match internazionali dell’Italia in novembre, quello contro l’Irlanda, al Soldier Field di Chicago (ore 14 locali, ore 21 italiane, diretta su Dazn).

 

Si è sempre detto che un arbitro, quando è bravo, non si deve notare. Con Owens è impossibile. Adesso, perché tutti, almeno nel pianeta ovale, lo conoscono. E prima, perché ha sempre unito la bravura alla disinvoltura, la precisione alla sobrietà, la puntualità a una certa classe. Protagonista, senza volerlo. Modello, senza cercarlo. Personaggio, senza pretenderlo.

 

Gallese di un villaggio, Mynydd Cerrig, una ventina di chilometri a nord di Llanelli, una delle patrie del rugby, Owens – come tutti i bambini gallesi da quando uno studente del college di Rugby, William Webb Ellis, trasgredì le regole del calcio prendendo il pallone con le mani e correndo verso l’area avversaria, era il 1823 – inseguiva i rimbalzi ubriachi e cubisti del pallone ovale. A scuola e nel club. “Finché un giorno, in partita, svirgolai un calcio decisivo”. Deluso, accettò al volo la proposta del suo insegnante di educazione fisica, che gli aveva consigliato di continuare nel rugby, ma da arbitro. “Fu la mia fortuna”. E, a 16 anni, entrò in campo con questo nuovo ruolo. “Non solo ruolo, ma anche compito, e quasi missione”. Perché gli arbitri di rugby non si limitano a dirigere l’incontro e fischiare i falli, ma si prodigano nel prevenire le infrazioni e predicare le leggi, scritte e non scritte, agonistiche ed etiche, di quello sport – come tramandano proprio i gallesi – “giocato in paradiso”.

 

Tecnico scolastico (ma anche per più di un anno bracciante agricolo), Owens ha bruciato le tappe della carriera di arbitro: a 29 anni diresse la prima partita di un torneo europeo, a 30 era uno dei tre arbitri professionisti gallesi, a 31 debuttò nella Celtic League, a 32 esordì in un match internazionale di seconda fascia, Portogallo-Georgia, a 34 di prima fascia, Giappone-Irlanda. Adesso, che di anni ne ha 47, Owens ha arbitrato tutto e tutti, compresi i tour dei Barbarians e dei Lions e tre Coppe del Mondo, nel 2007, 2011 e 2015, e soprattutto, di quest’ultima, la finalissima tra Australia e Nuova Zelanda.

 


Nigel Owens durante la finale della coppa del mondo di rugby tra Nuova Zelanda e Australia (foto LaPresse)


 

Detta e scritta così, sembrerebbe una vita facile. Invece c’è stato un momento in cui Owens è diventato arbitro della propria vita. E’ successo quando dovette ammettere a se stesso di essere gay. “Per sopportarlo, in un ambiente così macho come quello del rugby, cominciai a bere e mangiare, e a farmi di steroidi fino a diventarne dipendente. Soffrii di depressione e bulimia. Una notte volli farla finita: uscii di casa con un fucile, una scatola di paracetamolo e una bottiglia di whisky”. Svenne prima di suicidarsi. “Quando mi ripresi, scelsi di vivere”. Fu decisivo non solo il sostegno della famiglia, ma anche quello del rugby. “E’ uno sport speciale, di gentiluomini, che detta le regole, insegna a stare al mondo e impone il rispetto, per gli avversari e per i compagni, per se stessi e per l’arbitro”. Da allora non c’è stata occasione in cui Owens non abbia testimoniato valori, codice, appartenenza. Spesso con arguzia e ironia.

 

Quella volta che (Munster-Benetton Treviso, 2012), disse: “Questo non è il calcio”. “Non arbitravo il Benetton da sei anni, il loro mediano di mischia era un sudafricano (Tobias Botes, naturalizzato, ndr), e da cinque o 10 minuti aveva cominciato a lamentarsi di ogni mia decisione. Quello che mi passò per la testa fu ‘non credo di aver mai arbitrato prima questo ragazzo, perché se lo avessi fatto, lui saprebbe che cosa fare di meglio che non questionare le mie decisioni’. E quando andò oltre, dissi: ‘Bene, fermiamo il gioco’, e gli spiegai: ‘Credo che non ci siamo mai incontrati prima, ma l’arbitro sono io, non tu. Tu fai il tuo lavoro, e io faccio il mio. Questo non è il calcio’”. E quella volta che a un giocatore che faceva la scena tuffandosi come fanno di solito i calciatori, gli indicò dove fosse lo stadio da football più vicino. Quella volta che (Leicester Tigers-Ulster, 2014), ai giocatori che parlavano in campo, ribadì: “Lo stadio di calcio è a 500 metri da quella parte”. Quella volta che (Munster-Stade Toulousain, 2014), ai giocatori delle prime linee che non scendevano in mischia chiusa secondo le regole, tuonò: “Se non vi piace fare le mischie, avete sbagliato ruolo. Dovete stare su, il prossimo che non lo fa va fuori 10 minuti”. E quella volta che ad altri uomini di mischia molto suscettibili suggerì: “Se volete abbracciarvi, fatelo dopo la partita”. Quella volta che (Francia-Inghilterra nel Sei Nazioni 2014), all’ala Yoann Yuget e all’estremo Mike Brown che prima si spingevano e poi si afferravano per il collo, dichiarò: “Non siete dei bambini cresciuti, siete adulti e da adulti dovete comportarvi. E da adulti vorrei trattarvi”. E quella volta che al capitano dell’Inghilterra, Chris Robshaw, che chiedeva spiegazioni, spazientito sbuffò: “Uhhh… Christopher” (probabilmente era la prima volta che Robshaw veniva chiamato Christopher dal giorno del battesimo).

 


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Una delle scene più divertenti risale a Glasgow-Munster 2012, quando Owens volle vederci più chiaro e chiamò l’intervento del Tmo, il giudice addetto alla moviola fuori dal campo. Ma le radioline non funzionavano. Allora Owens si fece prestare il telefonino personale del quarto uomo e chiamò il giudice della moviola. Lo stadio esplose in una risata. Tornato nello spogliatoio, Owens si scusò via Twitter: “Maledetta tecnologia e maledetto io che non so stare al passo”.

 

Anche sulla propria sessualità, Owens ha trovato come riderci su. Quella volta che (Harlequins-Castres, 2014), al tallonatore degli inglesi che aveva lanciato il pallone storto in touche, disse: “Sono più diritto io di quel pallone”, e in inglese diritto (“straight”) significa anche eterosessuale. E quella volta che entrò nello spogliatoio degli Ospreys, il capitano della squadra gallese, Ryan Jones detto Jughead (testa di brocca, cioè testa dura, “de coccio” si direbbe a Roma) gli disse “aspetta, fammi mettere addosso qualcosa”, e lui gli rispose “non mi cambia niente, Jughead, sei comunque troppo brutto”. Quella volta che (Inghilterra-Francia nel Sei Nazioni 2014), due tifosi lo insultarono pesantemente, ma furono denunciati da altri spettatori, i due si dichiararono pentiti e si scusarono con Owens, che li catechizzò: “Insultate il mio arbitraggio, non la mia sessualità”. E quella volta che di un giornale italiano che aveva titolato “Arbitro gay per Italia-Francia di rugby”, lui ammise che “a parte il mio nome e gay, di tutto il resto non ho capito nulla”.

 

Per tutto questo Nigel Owens è molto più di un semplice arbitro. Altrimenti, dove si potrebbe mai trovare un arbitro che si schiera contro il bullismo e a favore dell’animalismo, che si è guadagnato il titolo di baronetto, che confessa che il suo eroe è Phil Bennett, mediano di quel fantastico Galles anni Settanta fatto di acrobati e minatori, che a tutti i giocatori consiglia non solo di allenare il corpo ma anche la mente, che giura che la massima soddisfazione non è stata dirigere una finale mondiale ma una partitella di rugby “tag” (senza contatto: invece di placcare, si strappano due nastri appiccicati all’altezza della vita) Under 7 nell’intervallo di un match internazionale, che sostiene che “un arbitro felice è un buon arbitro”? A vederlo in campo, impegnato – come spiegava Oscar Wilde – “a tenere 30 energumeni lontano dal centro della città”, Nigel Owens sembra proprio un uomo felice.

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