Géza Kertész, István Tóth-Potya e il calcio contro l'Olocausto

Francesco Caremani

I due allenatori ungheresi sono stati ammazzati dai tedeschi nel 1945 per aver salvato resistenti ed ebrei, facendoli espatriare con documenti falsi prima che fossero internati nei campi di sterminio

Questa è la storia di Géza Kertész e István Tóth-Potya due calciatori, poi allenatori, ungheresi che hanno salvato resistenti ed ebrei, facendoli espatriare con documenti falsi prima che fossero internati nei campi di sterminio. Scoperti sono stati fucilati da un plotone d’esecuzione a Budapest il 6 febbraio del 1945, a pochi giorni dalla liberazione della città. Una storia poco conosciuta, nonostante le loro lunga e importante carriera italiana, soprattutto quella di Kertész, che è stata riscoperta e poi raccontata in un libro da Roberto Quartarone: Due eroi in panchina. Géza era nato a Budapest il 21 novembre 1894, spesso confuso con altri calciatori omonimi aveva una personalità spiccata, certificata dal suo portamento e dal modo di parlare, era considerato un calciatore intelligente e capace di ricoprire più ruoli, ma così lento da essere soprannominato “bradipo”. Cresciuto nel BTC Budapesti passò poi al Ferencvaros, dove conobbe István Tóth-Potya (classe 1891) che con i biancoverdi giocò dal 1912 al ’26, segnando 63 reti in 197 partite.

 

Kertész nel 1925 si trasferisce in Italia e termina la sua carriera di giocatore con Lo Spezia, cominciando quella decisamente più produttiva di allenatore. Iniziò proprio con la squadra ligure portandola dalla Seconda alla Prima Divisione. Si ripete con la Carrarese per passare poi al Viareggio e alla Salernitana. La sua fama di vincente lo precede e il barone Enrico Talamo, proprietario del Catanzaro, che all’epoca si chiamava Catanzarese, lo ingaggia senza badare a spese e nel 1933 Géza conquista la serie B, divenendo un eroe popolare, anche se dopo avere perso lo spareggio col Perugia la squadra fu ammessa d’ufficio al campionato superiore. L’animo nomade, irrequieto ha scritto qualcuno, lo portò in Sicilia, al Catania, dove rimase tre stagioni (1933-36), la sua panchina più lunga, e bissò il successo calabrese. La piazza, a quel punto, voleva la serie A e fu acquistato Biavati, futuro campione del mondo, mandato dal Bologna a farsi le ossa, ma i rossoblù non raggiunsero l’obiettivo: "Avete una gran bella squadra, ma sovratutto un grandissimo allenatore", disse Gianpiero Combi a Enzo Longo nel ’34 parlando del Catania e di Géza Kertész.

 

Kertész ha allenato poi il Taranto, l’Atalanta, la Lazio, ancora Salernitana e Catania, poi l’R.S.T. Littorio e la Roma nel 1942-43. L’Italia era in guerra e così decise di tornare in patria, allenando l’Ujpest in quella che è stata la sua ultima stagione in panchina. Sposato con Rosa e padre di due figli, Kate e Géza, Kertész era un nazionalista e tenente colonnello dell’esercito, nelle sue frequentazioni romane era diventato amico di uno dei figli di Mussolini, ma quando la storia gli ha imposto di scegliere una parte, lui ha scelto quella dei giusti, insieme con l’ex compagno di squadra István Tóth-Potya. Giocatore e tecnico molto più famoso e vincente, da calciatore vanta due scudetti e due coppe d’Ungheria col Ferencvaros, da allenatore 4 campionati, di cui uno con Ujpest, 3 coppe d’Ungheria e una Mitropa Cup, l’antesignana della Coppa dei Campioni, sempre con il Ferencvaros.

 

Tóth-Potya in Italia ha allenato la Triestina, lanciando Gino Colaussi, e l’Ambrosiana Inter, dove sostituì il connazionale Arpad Weisz. Tóth-Potya, il secondo cognome se l’aggiunse da solo per riprendere il soprannome che gli aveva dato la sua madrina di battesimo (potyka, in ungherese carpa), era considerato uno dei tecnici più preparati d’Europa, per gli allenamenti innovativi e la tattica rivoluzionaria che aveva saputo introdurre e per la gestione del gruppo, sulla cui forza puntava motivandolo al massimo, curando ogni dettaglio del singolo con schede personali di allenamento per sviluppare i punti forti e recuperare quelli deboli. Eppure tante capacità non sono bastate per ricordarlo degnamente nell’hall of fame del calcio ungherese, che in quegli anni fino ai primi Sessanta ha fatto la storia di questo sport.

 

Ritrovatisi in Ungheria, durante l’occupazione nazista, Géza e István diedero vita al Gruppo melodia, un’organizzazione resistenziale che aiutava gli ebrei a scappare dal ghetto e sfuggire all’Olocausto. Sia con documenti falsi che travestendosi da SS, grazie al loro perfetto accento tedesco. Questa attività andò avanti per mesi, intrattenendo rapporti con i servizi segreti statunitensi, salvando tante persone, anche se il numero esatto non ci conosce, consapevoli di rischiare la vita. Fino a che non furono denunciati alla polizia nazista, con l’accusa di nascondere degli ebrei in casa, e furono arrestati e incarcerati. Il 6 febbraio 1945, con Budapest accerchiata dall’Armata Rossa, il responsabile della prigione ordinò la fucilazione di Géza Kertész e István Tóth-Potya, mentre altri membri del Gruppo melodia furono rilasciati. Una settimana dopo, il 13 febbraio, la capitale veniva liberata dai nazisti.

 

Kertész fu riconosciuto “martire della patria” e migliaia di persone parteciparono al suo funerale, tra queste alcuni catanesi. Perché a Catania, più che altrove, ha lasciato il segno di allenatore e di uomo; città che gli ha dedicato una strada e un murale. Una storia umana e sportiva dimenticata per decenni che è stata rispolverata grazie al lavoro di ricerca di Roberto Quartarone ed è sempre grazie a lui se oggi Géza Kertész è ricordato come lo Schindler di Catania; raccontato pure nel successivo libro di Claudio Colombo: Niente è stato vano. Nereo Rocco soleva dire “In campo come nella vita”, significando che i valori che abbiamo dentro non si possono nascondere e vengono fuori quando ce n’è più bisogno. Questo è stato.

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