Il campo di concentramento e sterminio nazista Auschwitz-Birkenau (foto LaPresse)

Figlio e padre

Adriano Sofri

La “Piccola autobiografia di mio padre” di Daniel Voglemann è così essenziale che riassumerla le nuoce

Daniel Vogelmann è grande, robusto e abbracciabile come un tronco d’albero, ammesso che un albero si porti addosso una secolare depressione. Si è incerti se riconoscere in lui piuttosto un padre o un figlio, figlio di Schulim, padre di Shulim – un nonno certo, diventare nonni toglie ogni esitazione. Pochi anni fa aveva scritto per le sue nipotine una “Piccola testimonianza di un cosiddetto figlio della Shoah”, bellissima, privata.

 

Suo padre era nato in Galizia e lì aveva avuto il suo apprendistato: “E così conobbi il mio melamed, il maestro. Era un uomo vecchio con un grande naso. Mi ricordo questo particolare perché un giorno mi misi le dita nel naso e lui fece altrettanto (due grandi dita nel suo grande naso) e mi disse: “Ti sembra bello?!”. Da quel giorno non mi sono messo più le dita nel naso”.

 

L’anno scorso Daniel ha fatto la sua mossa del cavallo e ha scritto, e questa volta pubblicato, una “Piccola autobiografia di mio padre”. Suo padre Schulim e la sua famiglia furono portati ad Auschwitz, nello stesso treno che portava Liliana Segre e suo padre. Non tornò Alberto Segre e non tornarono la sposa di Schulim, Annetta, e la loro bambina, Sissel, la sorellina che Daniel, nato nel 1948 da un’altra madre, non ha conosciuto. Le ha dedicato molte cose, e cinque piccole poesie. Per esempio: “Come non sperare / nell’immortalità dell’anima? / Potrei incontrare finalmente / la mia sorellina Sissel, / volata in cielo prima che io nascessi. / Mi verrebbe incontro sorridendo / e mi direbbe dolcemente: / ‘Ah, tu sei Daniel’”. O per esempio: “Promettimi / che mi darai la mano / il giorno che arriverò da te. / Perché, sai, un po’ di paura / mi è rimasta…”.

 

In quel viaggio per Auschwitz, Schulim riuscì a ricordarsi quello che aveva imparato. “Ho sempre amato in particolare la massima attribuita a Shemuel Hakatan (Samuele il Piccolo): “Quando cade il tuo nemico non ti rallegrare…”. Mi venne in mente anche sul treno che ci portava ad Auschwitz dove insieme a noi c’era un noto ebreo fascista”. Schulim parlava polacco e tedesco, aveva viaggiato in Israele, a Firenze, presso Leo Olschki, era diventato un esperto tipografo, così i padroni nazisti se ne servirono per la fabbricazione di sterline false, e di lì passò ai lavoratori di Schindler, il solo italiano scampato di quella lista. Non ne avrebbe mai parlato, di Schindler e della lista. Dopo l’avventuroso ritorno, a piedi, fu parco di racconti, e quella sobrietà è la cifra poeticamente magra con la quale Daniel scrive a suo nome. La “Piccola autobiografia di mio padre” è così breve ed essenziale, una trentina di pagine, che riassumerla le nuoce. “Il libro doveva cominciare così: “Sono nato su un treno mentre la città bruciava””. E finire così: “Mi dissi: “Ho superato Auschwitz, supererò anche questo”. E così fu. Poi però il mio cuore malato (avevo già subito diversi infarti) cessò alla fine di battere e in parole povere morii. Era il 9 giugno 1974”. Daniel, che pensava al suicidio, trasformò la tipografia in casa editrice. La Giuntina pubblicò il suo primo titolo, “La notte”, di Elie Wiesel, nel 1980. Da allora, i soli titoli della collana Schulim Vogelmann sono diventati 215, e più di 600 l’intero catalogo. Accanto a Daniel c’è Shulim, andato e tornato a Firenze da Israele. Tocca anche a lui ora, quello con una “c” in meno, figlio e padre.

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