foto tratta dal profilo Twitter della Sampdoria

Genoa-Sampdoria non può essere un derby politicamente corretto

Andrea Marcenaro

Genova non è divisa, è solo debole, piegata. Ha pochi punti di forza e uno di questi è proprio la stracittadina. La più bella partita del mondo. Il racconto di un tifoso sampdoriano

Giusto per la sportività, mettiamo prima le cose a posto: il Genoa nacque come la prima squadra xenofoba in Italia. “Salviniana” si potrebbe in qualche modo dire. Nel 1893, fondata da inglesi per gli inglesi, non voleva italiani tra i piedi. Prima gli inglesi. Si giocava, sotto il nome di Genoa, tra equipaggi rigorosamente britannici. Agli italiani venne buttato un osso soltanto nel 1897. Alcuni genovesi, invece che mandare a quel paese i baronetti, si accucciarono a rosicchiarlo. Lo rosicchiano da più di un secolo, sostenendo di rappresentare per questo lo spirito superbo della città. La Sezione Calcio della Sampierdarenese, da cui poi la Sampdoria, nacque invece nel 1899, senza elemosine e senza sorrisetti di concessione, nel quartiere più operaio di Genova. E quanto a lombi, dovrebbe bastare. Il Genoa, che vincerà senz’altro il prossimo derby, per il semplice motivo che prima o poi perfino un tennista lo vincerebbe, sono comunque quattro turni che non riesce a ciucciarne uno. Curiosità attinenti: il primo derby si disputò il 3 novembre 1946 e i rossoblù beccarono 3 pere. A zero. La sfida della Lanterna con lo scarto più grande resta il 5-1 per la Sampdoria del 17 ottobre 1948, che mantiene tre record: il massimo scarto; il maggior numero di reti realizzate; la sifolata più goduriosa a memoria d’uomo.

 

“Se stringo la mano a un genoano fanno prima il ponte? Ci finanziano il porto? Non fateci ridere”

La regola è nota: se sampdoriani mai guardare il campo. Sentire i boati. I gol si sentono

Messa a posto l’etica, ma pure un poco la matematica, si può venire all’impegno di domenica 25 novembre, ore 20.30.

 

Sarà magnifico, come sempre. All’ovvia quanto primaria condizione che quei due deficienti si stacchino tra loro per un momento. Anche se: “Veniamo dall’immagine di un tifoso genoano e di un altro sampdoriano sul ponte, spero che continuino a tenersi per mano. Poi, quando torneremo tranquilli, ricominceremo a prenderci in giro. In questo momento la città non può dividersi anche per il calcio”. Eccola là. E se foste curiosi di sapere chi abbia pronunciato la cazzata del mese, sarà stata la sfiga, o sarà stato per caso, comunque è esatto: l’ha detta un genoano. Il presidente della Fondazione di Palazzo Ducale, Luca Bizzarri, desidera un derby sul genere via crucis: non può, Genova, dividersi “anche” sul calcio.

 

O belìn, questa scì ch’a l’è bella, sono soliti dire da quelle parti. “Anche”, sul calcio? Perché, su cos’altro è divisa Genova? Non è divisa sulla consapevolezza che il governo l’abbia presa per il culo. Non è divisa sul giudizio riguardo a Toninelli. Non è divisa sul Terzo valico. Né sulla Gronda. Non sui tempi del ponte. Non sulla casa per chi l’ha persa. Non su Ischia preferita dalla legge. Non sul fatto che l’Iri abbia sepolto un’imprenditoria secolare. Genova non è divisa, presidente caro, Genova è solo debole. E’ piegata. Ha pochi punti di forza e uno di questi è il suo derby.

 

Il più bel derby del mondo, dicono non solo a Buenos Aires, perfino a Milano. Un derby fantastico. Col privilegio di avere come contendente il Genoa, vale a dire una squadra di bertucce. E dovremmo sospendere, noi, l’unica gioia nostra, o tra le poche rimaste, solo per non prendere per il culo le bertucce? A che pro? Perché? Se stringo la mano a una bertuccia fanno prima il ponte? E se faccio un derbyno da Madonna infilzata? Se tengo la scimmietta per la zampa domenica, alle 20.30, ci finanziano il porto? Non raccontatela ai genovesi, che sorridere sanno. E ancor meglio piangere. Domenica sera, ridere vorremmo. Un po’. Non uccidere, ridere. Deridere. Deriderli. Volgari il giusto. Al derby, sì, esattamente al derby contro quei coglioni. Anche se, che Dio li fulmini, stavolta vinceranno loro.

 

La regola è stranota: se sampdoriani, mai guardare il campo. Sentire i boati. I gol si sentono. Ma mai guardare il campo. Se qualcuno gioca bene, ciò che capita soltanto dalla parte nostra, sicuro che l’anno prossimo lo vendono. Più facile alla Roma. 45 milioni per Schick una cacata non sono e non si può negare. Genovesi siam sempre. Però dispiace. E per Torreira, dispiace. E per Škriniar. Lasciamo stare. Guardare quindi, e solo, le gradinate. Sempre. Le quali, quantunque concepite dall’architetto Gregotti, esplodono di colori e di sfottò. Poi, in questo tali e quali all’architetto Gregotti, molto meglio di lui, però, fragorosamente sanno esplodere di sé. Le curve, per dire, esplodono meno, perché le curve son tonde. Laddove le gradinate nostre sono un mondo di spigoli: tutto si rompe e un altro tutto ricomincia.

 

Somigliano alla città. Salite e discese. I palazzi sulle gallerie. Container in bilico. Monti a novanta gradi sul mare. Così va tutti i giorni a Genova e così va allo stadio nel giorno del derby. Capita addirittura di trovarsi ribaltati, in quell’ora e mezza.

 

Chi lo dimentica, lo striscione più bello del mondo concepito da quei cornuti? 30 marzo del 1991, Vialli e Mancini. Scudetto. Ripeto: scudetto. Sarebbe finita, ma chissenefrega, zero a zero. Solo che blucerchiata era, la maglia nostra, bellissima e blucerchiata. L’enorme lenzuolo coprì tutta la gradinata Nord all’ingresso delle squadre: “Ma cume faè a guagnà u scudettu, cun quella maggia da ciclisti?”. Come fate a vincere lo scudetto con quella maglia da ciclisti? E niente, fine dello scudetto.

 

C’è la classe dirigente, in compenso. Quella che sta in tribuna. Ora. Se esiste un posto dove la classe dirigente è sacra, quel posto è Genova. Da Andrea D’Oria (l’apostrofo, Cristo!) al Pci, dai Costa a Taviani, da sua eminenza Siri a sua eminenza Batini (Batini fu il cardinale dei portuali), fino e perfino ai capi delle Brigate Rosse, la classe dirigente dirigeva, a Genova, più che i Savoia a Torino, che i Papi a Roma o gli Orlando (Cascio) a Palermo. Rispettata, seguita, sempre temuta. Benissimo.

 

Guardate allora la tribuna dello stadio nostro, oggi. C’è Ferrero di qua, c’è Preziosi di là. Scusate: ma il genoano Preziosi? Chi è Preziosi? Il nulla. Un giocattolaro. Un assemblatore di nasi finti. Uno con la valigetta mezza piena di mezzi soldi per l’acquisto di mezze partite. Uno che manco gli luciderebbe le scarpe, ai vecchi fascisti del Genoa che presiedevano la bisca del Club in quel glorioso dopoguerra. Uno che, dicono i suoi: ma quale cazzo di dirigente sarebbe?

 

Mentre di qua: Ferrero. Il blucerchiato de Roma. Scaramacai. Le scarpe da golf sulle calze da neve. La camicia sul pullover, che manco mister Tod’s. La zazzera. La sciarpa fermadenti. La fortuna di Crozza. Aaa’ Sandoria mia. Er cinematografaro senz’er cinema. Alle corte: un benefattore. Un uomo che il più Casamonica degli immigrati di Genova adesso lo vede, Ferrero, e da pulciaro che si sentiva, grazie a lui finalmente un lord Mountbatten, si sente. Minimo. Che poi manco cinese sembra, Ferrero, il cinese è dell’Inter. O quell’altro del Milan, che sui due piedi non so.

 

E molto più di tutto questo, è il derby di Genova. Che è un rock con dietro il fado, si potrebbe dire. E che lo rifaremo, il nostro cazzo di ponte. Potete giurarci, che lo rifaremo. Perché andremo alla partita, e urleremo di tutto come prima. E a quel genoano stronzo che ci tiene per mano sapremo dire: ti voglio pure bene, brutto stronzo di merda, tu ricorda solo che il nostro ponte, quanto amato, correva dalle parti di Sampierdarena.

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  • Andrea Marcenaro
  • E' nato a Genova il 18 luglio 1947. E’ giornalista di Panorama, collabora con Il Foglio. Suo papà era di sinistra, sua mamma di sinistra, suo fratello è di sinistra, sua moglie è di sinistra, suo figlio è di sinistra, sua nuora è di sinistra, i suoi consuoceri sono di sinistra, i cognati tutti di sinistra, di sinistra anche la ex cognata. Qualcosa doveva pur fare. Punta sulla nipotina, per ora in casa gli ripetono di continuo che ha torto. Aggiungono, ogni tanto, che è pure prepotente. Il prepotente desiderava tanto un cane. Ha avuto due gatti.