Luis Suárez nel 1965 con la maglia dell'Inter (foto LaPresse)

L'Inter, il Barcellona e quando Suárez valeva uno stadio

Giovanni Battistuzzi

Nella sfida di Champions League tra nerazzurri e blaugrana ci sarà un Suárez in campo e un Suárez, quello vero, che vedrà le sue due ex squadre affrontarsi

Se il Barcellona è “mès que un club”, lui era “mès que un futbolista”, perché “quando il pallone gli arrivava tra i piedi era capace di inventare mondi meravigliosi, creava un diverso rapporto tra spazio e tempo”. Lo scrittore Manuel Vazquéz Montalbán era poco più che un ragazzino quando andava al Les Corts (così si chiamava lo stadio prima che arrivasse il Camp Nou) per vedere il Barcellona. Quel Barça guidato in panchina da Helenio Herrara, delle due coppe delle Fiere vinte, dei due campionati vinti contro il Grande Real. Il Barça di Sándor Kocsis e László Kubala, di Zoltán Czibor e Luis Suárez, soprattutto di Luis Suárez, “infinitamente di Luis Suárez”.

  

Luis Suárez, quello di un tempo, mica quello di oggi, quello dallo "sguardo vispo e dal sorriso timido", mica quello coi dentoni. Luis Suárez, il primo, Luisito, quello vero, del Pallone d’Oro 1960, l’unico spagnolo ad averlo mai conquistato. Quello che, per Vazquéz Montalbán, “arrivò a Barcellona un giorno di luglio, in silenzio, e cambiò il modo di giocare a pallone. E il Barça”. Quello che non solo giocava a calcio “ma dava un senso al calcio”, ché non era un calciatore, “ma un intero mondo”, che non era solo un centrocampista, “ma un architetto, un artista che dava forma al gioco”. E qui lo scrittore non c’entra niente, le parole sono di Alfredo Di Stefano, il giocatore simbolo del Real Madrid di allora, cioè l’altra parte del calcio spagnolo. O meglio del mondo spagnolo. Perché Blaugrana e Blancos erano due sistemi ideali, due universi paralleli: improvvisazione contro disciplina, libertà contro dittatura, antifranchismo contro franchismo, soprattutto Catalogna contro Castilla.

 

Luis Suárez si fece amare dal Barcellona e dall'Inter, quello del corsomazzolasuarez. Inter-Barcellona – stasera, quarta giornata del girone B di Champions League – è la sua partita. Nonostante Ronaldo, nonostante Figo, nonostante tutti quelli che ne hanno seguito il percorso.

 

Suárez era per il – e la – Barcellona di allora, diceva il poeta Josep Carner, un vessillo, “un dono fantastico”, “il Gaudi del pallone”, l’uomo che “rendeva possibile l’impossibile”. Suárez era per Helenio Herrera “il senso del gioco”, “l’unico indispensabile”, “il giocatore che da solo vale metà squadra”. Quando il fu Habla-Habla, che divenne il Mago, se ne andò dal Barça, dopo aver litigato con il presidente a causa di qualche migliaia di pesetas di premi non corrisposti, per accomodarsi sulla panchina dell’Inter, disse ad Angelo Moratti che c’era solo un modo per poter vincere: “Avere l’Arquitecto”.

 

 

Ci vollero dodici mesi e un campionato più che buono ma non esaltante per convincere il presidente che, stufo delle sue insistenze, decise di assecondare i suoi voleri. D’altra parte di quell'allenatore aveva fiducia, anche se lo considerava folle. Credeva in quel tecnico che diceva di poter far dei nerazzurri la squadra più forte al mondo, ma era riuscito solo ad arrivare terzo, che giocava bene, ma perse male la semifinale di Coppa delle Fiere, e che diceva di essere un fine conoscitore del calcio e poi sussurrava a Mauro Bicicli “sei più forte di Garrincha”.

 

“Quando vide giocare per la prima volta Luisito in campionato, Moratti ebbe la tentazione di esonerare Herrera”, raccontò Italo Allodi, il direttore sportivo dei nerazzurri. “Aveva staccato un assegno di 300 milioni di lire per una mezzala, per uno che doveva correre e segnare e Helenio invece lo schierava da mediano di centrocampo: lo faceva giocare basso, davanti alla difesa”. Sembrava idiozia, fu storia. Perché quando lo spagnolo si abituò al nuovo ruolo, l’Inter divenne la Grande Inter e Helenio Herrera il Mago.

 


Foto LaPresse


  

Suárez rese magica l’Inter, ma salvò il Barcellona”, disse nel 1970 l’ex segretario tecnico dei catalani, l’uomo che scoprì Kubala e che quando il tifo si spaccò tra gli amanti dell’ungherese e quelli di Suárez si schierò con il primo. “Kubala era immenso, ma senza i 25 milioni di pesetas lo stadio non sarebbe mai stato completato e il club sarebbe fallito”.

 

Il Camp Nou era stato inaugurato dal 1957. Dei due anelli in progetto però solo uno era stato completato nel 1960: troppo poco per permettere al club di avere risorse sufficienti per ripagare i debiti. Rinunciare a Suárez divenne un male inevitabile. La rinuncia al galiziano però portò in piazza migliaia di tifosi. La sede del club fu accerchiata. Per dodici ore tutto fu bloccato. La polizia, su ordine di Franco, non intervenne e tutto sembrava volgere al peggio. Solo l’intervento del presidente che promise abbonamenti gratuiti per i tifosi alla conclusione dei lavori sedò la rivolta. Disse che Kubala era ancora un giocatore blaugrana, che la squadra sarebbe presto tornata a vincere, che Suárez era solo un giocatore e che con il nuovo stadio completato il Barcellona sarebbe stato in grado per vincere sia il campionato che la Coppa dei Campioni.

 

Andò diversamente. L’Arquitecto alzò sotto la Madunina tutti i trofei possibili. Il Barcellona impiegò sette anni per vincere una Coppa del Rey e tredici per conquistare un campionato.

 

E' andata che Suárez è rimasto un rimpianto anche a oltre cinquant’anni di distanza, un rimpianto mitigato da un altro Luis Suárez, uno che porta nome e cognome del primo, che segna più del primo, ma ha non la classe del primo. Soprattutto, non ha la capacità di “rendere possibile l’impossibile”.

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