Uno striscione dei tifosi del Chelsea dedicato a Frank Lampard, attuale allenatore del Derby County (foto LaPresse)

Peggio di Ibra al Milan c'è solo River-Boca

Jack O'Malley

Il ritorno di Lampard a Stamford Bridge e il calcio che diventa farsa e spettacolo circense

Non è sembrata una sfida decisiva per il passaggio del turno in Coppa di Lega, quel Chelsea-Derby di mercoledì sera. Non poteva esserlo. Sulla panchina degli ospiti sedeva uno che a Stamford Bridge ha calpestato ogni singola zolla di campo per tredici anni, facendo sussultare il cuore di ogni tifoso dei Blues che quella sera tifava la squadra di Sarri. È sembrata una festa, e una volta ogni tanto va bene così anche per un antisentimentale come me. Frank Lampard non la smetteva più di applaudire il pubblico di casa, e il pubblico di casa non voleva che quell’applauso finisse mai. All’inizio e alla fine, quando da sconfitto Lampard ha fatto il giro di campo, applaudito dai suoi del settore ospiti e dai suoi di sempre, i tifosi del Chelsea. Non ha dormito la notte prima, ha confessato in conferenza stampa. E come avrebbe potuto?

 

Il 21 settembre del 2014 – pochi mesi dopo essere stato messo alla porta da Mourinho che doveva programmare il futuro dei Blues (salvo poi essere esonerato) e non aveva più bisogno del vecchio Frankie – Lampard aveva vissuto la sua prima volta contro il proprio passato da giocatore del Manchester City. Entrato a pochi minuti dalla fine all’Etihad Stadium, era stato accolto da un’ovazione del settore ospiti. Come nelle migliori sceneggiature della storia del calcio, poco dopo Lampard aveva segnato il gol del pareggio, implorando con gli occhi i nuovi compagni di non abbracciarlo. Troppo dolore. Ben diverso mercoledì sera, quando ha impedito ai giornalisti pigri di scrivere lunghi pezzi sulla crudeltà del football e ha perso, soprattutto per sfiga. Il ritorno perfetto, indolore e romantico. Ma dato che di nostalgia non ci si sbronza, ho esauirito i cuoricini per quella vicenda, e già inorridisco leggendo della possibile fine che a gennaio potrebbe fare Ibrahimovic. Lasciato il calcio serio (leggi Premier League) un anno fa, lo svedesone sul viale del tramonto è andato a fare numeri da foca negli Stati Uniti, in quel grande cimitero degli elefanti che è la Mls. Trombe, fanfare, popcorn, telecamere in campo durante le esultanze, ospitate nei talk-show mainstream non sono bastati per fare arrivare la sua squadra – i Los Angeles Galaxy, ho detto tutto – ai playoff. Ibra si è offeso, e adesso non sa che fare per qualche mese. Gli Stati Uniti sono il gradino prima dell’alcolismo calcistico, la sala bingo dei pervertiti del pallone, l’equivalente del solito stronzo letterario trasportato sui campi da calcio. Dopo gli Stati Uniti c’è il ritiro, se non l’ignominia. Bene. La notizia è che Ibra potrebbe tornare in serie A, al Milan. Traete voi le dovute conclusioni.

 

Ho avvertito un fremito nella forza calcistica giovedì mattina. La notizia è che la finale di Coppa Libertadores sarà per la prima volta nella storia tra River Plate e Boca Juniors. Un derby da squadra omicidi per la versione circense della nostra Champions League, tra l’altro nell’ultima edizione con andata e ritorno prima dell’assegnazione della Coppa. Nel 2015 al ritorno degli ottavi la partita fu sospesa per un attacco con spray al peperoncino ai giocatori del River. Il teatrino argentino è già in moto, e sono molto tentato di vedere la doppia sfida anche io. Ferma restando la mia preferenza per la lotta nel fango e il campionato mondiale di rutti rispetto al calcio sudamericano. Ma solo perché sono sfide più serie.

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