La Nazionale riparte da chi la voleva di più: Roberto Mancini

Leo Lombardi

Il nuovo ct azzurro ha rinunciato a un contratto fino al 2020 con lo Zenit San Pietroburgo e con uno stipendio di 12 milioni. Con l'Italia la durata è la stessa, ma i milioni sono 4 in due anni

Almeno la promessa l'hanno mantenuta. “Avremo il nuovo ct entro il 20 maggio”, aveva detto Alessandro Costacurta, vicecommissario della Figc. Così è stato. L'Italia riparte da Roberto Mancini, scelto perché è stato quello che non ha avuto esitazioni a dire sì quando interpellato. E solo il cielo sa quanto servisse una persona convinta alla Nazionale come alla Federcalcio tutta. Un mondo scosso dall'eliminazione per mano della Svezia al playoff di novembre, decretando la nostra assenza dal Mondiale dopo sessant'anni. Un mondo in cui il presidente Carlo Tavecchio era stato costretto a dimettersi da gente poi incapace di siglare un accordo per un'alternativa credibile come successore. Così ci si era ritrovati non con uno, ma addirittura con due commissari: il presidente del Coni, Giovanni Malagò, per la Lega di serie A e il suo braccio destro Massimo Fabbricini per la Figc. E proprio quest'ultimo ha salutato il nuovo corso con parole nette: “Mancini aveva questo grande desiderio di sedere sulla panchina azzurra e lo ha dimostrato con fatti concreti”.

 

Il desiderio, innanzitutto. Lo stesso provato da Claudio Ranieri, ma il miracolo Leicester non bastava per renderlo un candidato solido. Tra gli altri, invece, tale sentimento non albergava. Come in Carlo Ancelotti, troppo preso dalla voglia di un'altra panchina di club, o come in Antonio Conte, poco convinto di un ritorno nell'Italia salutata dopo l'Europeo del 2014. Poi i fatti concreti. Mancini ha rinunciato a un contratto fino al 2020 con lo Zenit San Pietroburgo e con uno stipendio di 12 milioni. Con l'Italia la durata è la stessa, ma i milioni sono 4 in due anni: una differenza enorme anche per uno che, di suo, sta assai bene. Si presenta dopo alcune esperienze che ne hanno appannato il profilo, e forse proprio per questo ha scelto di dare una sterzata. Lo Zenit di cui sopra, con cui ha mancato la qualificazione Champions. Prima ancora il flop del ritorno all'Inter e l'esperienza negativa con il Galatasaray. L'Italia, però, ritrova un profilo che aveva saputo essere vincente prima come giocatore e poi come allenatore, in patria come all'estero. L'esatto contrario di ciò che era stato il fallimentare Gian Piero Ventura, unito al suo successore (dopo l'interim di Gigi Di Biagio) unicamente dall'esperienza alla Sampdoria.

 

Qui Mancini approda nel 1982 dal Bologna, dove ha da poco esordito prima di compiere 17 anni. Avrebbe potuto essere juventino, la squadra che andava a vedere da piccolo partendo con il pullman organizzato da Jesi, ma Giampiero Boniperti telefona con un giorno di ritardo rispetto a Paolo Mantovani, che costruisce intorno a lui e a Gianluca Vialli la squadra capace di vincere lo scudetto nel 1993. In campo Mancini è la perfetta spalla del centravanti: tecnica, fantasia, alzate di ingegno.

 

 

Nella memoria collettiva è inciso il colpo di tacco al Parma quando gioca nella Lazio, la squadra con cui vince il secondo, e ultimo, scudetto nel 2000, poco prima di dire addio al calcio. Un addio a dire il vero controverso perché Mancini, nel gennaio 2001, abbandona il posto di vice di Sven Goran Eriksson firmando un contratto semestrale da giocatore con il Leicester. Salvo poi salutare gli inglesi dopo appena un mese, perché chiamato in panchina dalla Fiorentina.

 

 

Un inizio tormentato, che gli aliena alcune delle già poche simpatie di cui gode. Perché Mancini sul campo è stato tanto spettacolare quanto poco accomodante. Se poteva concedersi una dichiarazione controcorrente, non si tirava indietro, per lo scandalo dei colleghi e la gioia dei giornalisti. L'inizio della carriera di allenatore completa il quadro: il regolamento impedisce di guidare due squadre diverse nella stessa stagione. Mancini trova una via d'uscita, sostenendo come alla Lazio fosse solo un secondo. Motivazione zoppicante, comunque accettata. Così chi non lo ama lo attende al varco. Un'attesa vana poiché un trofeo arriva sempre, ovunque lavori. In Italia raggiunge il top all'Inter, con lo scudetto a tavolino del 2006 grazie a Calciopoli (quello immortalato da José Mourinho come “vinto in segreteria”), seguito da quelli del 2007 (con la Juventus in serie B) e del 2008. In Inghilterra, invece, regala agli sceicchi del Manchester City un titolo che mancava dal 1968: vince la Premier 2011/12 all'ultima giornata, battendo il Qpr in rimonta al 94'.

 

Nei grandi club Mancini conferma la capacità di gestire con mano ferma gli spogliatoi: regole ferree e sacrifici valgono per tutti. Sul campo preferisce il risultato alla spettacolarità. E la concretezza servirà assai in azzurro, una maglia con cui ha avuto poca fortuna.

 

Faceva parte delle Under 21 spettacolari di Azeglio Vicini, ha vissuto la Nazionale più da comprimario che da protagonista (36 presenze e 4 gol). Ripartirà da Mario Balotelli, talento scoperto all'Inter e voluto al City. Su di lui aveva già provato Cesare Prandelli, che aveva tentato un approccio paterno con l'attaccante, restandone scottato al Mondiale brasiliano. Mancini ha invece preferito mettergli le mani addosso quando erano in Inghilterra e ha ottenuto qualche risultato. Si comincia con tre amichevoli contro Arabia Saudita, Francia e Olanda tra fine maggio e inizio giugno, poi ci metteremo davanti alla televisione a vedere gli altri giocare il Mondiale. Nel frattempo Mancini studierà e, speriamo, ridarà un'anima agli azzurri.