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La lunga rincorsa di Mancini per riprendersi la Nazionale

Francesco Caremani

I due scudetti, le delusioni in Azzurro da calciatore e quel lungo percorso di panchina in panchina, anche all'estero, per chiudere il suo conto aperto con l'Italia

“Sono emozionato. Diventare Ct non è una cosa banale e non capita sempre. Voglio ringraziare il commissario. Sono orgoglioso di guidare la Nazionale, ho messo piede a Coverciano nel ’78 per la prima volta con l’Under 14. Diventare allenatore è la cosa più bella, sono felice per questa scelta anche per i miei genitori. Ringrazio tutti gli allenatori che ho avuto da giocatore e tutte le persone che mi hanno aiutato nella mia crescita”. Queste sono state le prime parole di Roberto Mancini designato nuovo allenatore della Nazionale italiana e già salta agli occhi una qualità che in passato nessuno aveva pronosticato: “Gli manca la paraculaggine, è troppo spontaneo. E in questo mestiere bisogna saper fingere”, Ulivieri dixit. Un tecnico con cui non si è mai preso del tutto per via del ruolo: Renzo lo vedeva attaccante puro, Roberto si preferiva trequartista, libero di giocare e decidere. Bersellini diventava pazzo per i suoi colpi di tacco, considerati inutili. Bearzot lo escluse dalla Nazionale dopo un’uscita notturna non autorizzata a New York con altri, ma pagò solo lui. Vicini, che ne aveva fatto uno dei pilastri della sua Under 21, lo convocò senza farlo mai giocare al Mondiale casalingo del ’90; ebbe comunque il merito di schierarlo successivamente al fianco di Roberto Baggio in un’amichevole contro l’Olanda, spettacolo puro. Sacchi lo utilizzò per le qualificazioni a Usa ’94 ma non lo portò alla rassegna iridata, due fantasisti (di piede e di testa) erano troppi per gli schemi di Arrigo.

 

Introverso e orgoglioso, sono state sicuramente due delle caratteristiche del carattere di Mancini. E dire Nazionale significa evocare il primo ricordo azzurro tenebra di Roberto, almeno per chi ha oggi dai quaranta in su. Era il 10 giugno 1988, la partita d’esordio dell’Europeo di calcio, Germania-Italia, bel gioco e grandissimo gol del numero 18 che per festeggiare corre sotto la tribuna stampa indicando polemicamente i giornalisti mentre i compagni, tra i quali Paolo Maldini, cercavano di fermarlo.

  

Un rapporto sempre difficile, come complicato è stato quello con i fischietti: “I tifosi invece che picchiarsi tra loro dovrebbero invadere il campo e suonarle a certi arbitri”, sbotta nel gennaio 1987 dopo un’Atalanta-Sampdoria, segue squalifica e mancata convocazione in Nazionale, nonostante Vicini in un primo momento volesse derogare alle regole della Figc. Sì giustificherà così: “È stata una follia, a freddo non avrei mai detto certe cose. Ma mettetevi nei miei panni, voi che ora mi dipingete come un terrorista. A tredici anni sono stato preso e portato a Bologna, dove il calcio mi obbligava a essere già grande. Ho studiato fino al quarto geometri, ho letto, ma poco, perché il calcio non ti dà respiro: uno o due allenamenti al giorno, mangiare, dormire, il ritiro, non rimane mai un po’ di tempo per pensare e vivere come quelli della tua età. E ogni giorno in testa c’è la partita, la partita che non si può perdere… Poi la perdi, in quel modo, e per una volta nella vita si esplode. Ho fatto la parte del grande fino a domenica, poi non ce l’ho fatta più”, la confessione di un ragazzo non ancora uomo che solo Paolo Mantovani ha capito, accettato e amato sino in fondo. Il 5 novembre 1995 lo scontro durissimo con Marcello Nicchi, attuale presidente degli arbitri, una sceneggiata passata alla storia con espulsione annessa e una crepa tra lui e la Sampdoria, ora che il patron è diventato Enrico, dopo la scomparsa del padre.

 

 

Nel frattempo si era lamentato con Vicini per il poco spazio concessogli in Nazionale: “Giocare in una squadra come la Samp può essere uno svantaggio: godi di meno considerazione da parte della stampa nazionale”. “Io non pretendo niente. Chiedo solo che mi si offra la possibilità di competere con gli altri. Se mi convocherà ancora, bene; altrimenti me ne farò una ragione”. Alla fine se ne fece una ragione, perdendo, vincendo con la società blucerchiata e disegnando l’unico ciclo del club ligure che la storia ricordi. Tifoso della Juventus, che arrivò tardi quando era un ragazzo e anticipato dal Bologna, conteso spesso sul mercato da bianconeri e nerazzurri, alla Lazio ha trovato l’ambiente, i compagni, l’allenatore e una seconda società fatta apposta per lui. Vince ancora e con Sven-Goran Eriksson affina quelle doti di allenatore in campo, quasi un soprannome per Roberto Mancini, un soprannome che non piaceva a tutti: “Sono andato via a 29 anni perché a qualcuno non andavo bene: volevo finire la carriera in biancoceleste, ma qualcosa non andò bene a qualcuno che voleva fare l’allenatore in campo”, disse Diego Fuser.

 

Eriksson gli insegna la calma sfiancandolo a tennis e Mancini gli fa da secondo, giocatore-allenatore, cose viste più tra i dilettanti che in serie A. Ma il ‘Bimbo’ sembra frastornato, va in Inghilterra per giocare col Leicester City, poi torna in Italia e a marzo 2001 diventa tecnico della Fiorentina, la prima panchina: uno dei suoi desideri più forti e ardenti, finalmente realizzato. Roberto non potrebbe allenare stando alle regole della Figc, commissariata (allora come oggi), ma, dopo un tira e molla che vede le dimissioni di Azeglio Vicini da presidente degli allenatori e la rivolta di molti colleghi, le regole diventano più elastiche grazie al commissario Gianni Petrucci; i detrattori hanno sempre sussurrato che fu decisiva l’amicizia col potente banchiere Cesare Geronzi, capace di fare pressioni su una Federazione debole. I giornalisti amici, ci sono anche quelli, rispediscono le invettive ai mittenti. Perché se c’è un dato, adesso che Mancini è diventato Ct della Nazionale, è il suo essere divisivo.

 

In molti avrebbero preferito Carlo Ancelotti, la Juventus quattro stagioni fa gli preferì Massimiliano Allegri, questa volta è rimasto solo al comando di una corsa con pochissimi altri veri contendenti. Gli esordi sono stati positivi, vince subito la Coppa Italia con la Fiorentina, l’ultimo trofeo alzato in casa viola. Replica alla Lazio, oramai in disarmo dopo gli anni d’oro di Cragnotti. Infine l’Inter, un matrimonio che s’aveva da fare. Vince tutto in Italia, niente all’estero, fino al confine direbbe qualcuno. Vince con una serie A rivoluzionata da Calciopoli e con una squadra che schiera i giocatori più forti su piazza. Lascia i nerazzurri per il Manchester City degli emiri e grazie a campagne acquisti faraoniche riporta il titolo dalla parte ‘sbagliata della città’ (dove tutt’oggi è considerato un Dio in terra), insieme a una FA Cup e una Community Shield, nel mezzo vari premi personali. Una Coppa di Turchia col Galatasaray (eliminando la Juventus di Conte dalla Champions League), poi ancora Inter e Zenith San Pietroburgo senza brillare. Già l’opinione pubblica si chiede se sarà più allenatore o top manager, nel secondo caso inutile per guidare l’Italia. La sensazione è che nella sua carriera di tecnico Mancini si sia mosso più spesso da selezionatore, allenando dei club, qualità che adesso potrebbe tornare utile.

 

Fare il Commissario tecnico azzurro significa soprattutto essere solo contro tutti, non c’è un Paolo Mantovani a coccolarti, non c’è una società a farti da scudo, ci sono sessanta milioni di facce che ti scrutano e che ti giudicano per ogni singola scelta. Giusto? Sbagliato? È così. A cinquantatré anni si può accettare, è un’età appropriata per diventare calcisticamente adulto e indipendente, per fare pace con il proprio carattere e il proprio talento, due elementi che paiono averlo più ostacolato che aiutato nella carriera di calciatore.

 

Una cosa è certa, Roberto Mancini ha un conto aperto con la Nazionale e non solo perché appartiene a quella straordinaria generazione di giocatori italiani stretta tra il 1982 e il 2006, quella che non ha vinto niente per intendersi, sempre a un passo dal podio più importante. Ha un conto aperto per tutto quello che poteva essere e non è stato (36 presenze e 4 gol), più vicino a un Cassano che a un Del Piero.

 

Anche per questo ha già aperto le porte, giustamente, a Mario Balotelli, similitudini caratteriali comprese, Domenico Criscito, cui l’azzurro è stato tolto con modalità quantomeno cialtronesche, e aspetta Gianluigi Buffon (che potrebbe contendere a Paolo Maldini il Club Italia), conosce perfettamente i demoni del finale di carriera.

 

Passando alle cose formali, Mancini prenderà 2 milioni di euro l’anno, meno dei 4,5 di Antonio Conte, più degli 1,7 di Cesare Prandelli, considerando il suo staff (nel quale dovrebbe esserci Andrea Pirlo) il costo lordo sarà di 10 milioni nei due anni di contratto, da qui al prossimo Europeo, passando per la Nations League.

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