Chiesa di padre in figlio
Una storia fiorentina. Oggi c’è Federico, che corre come Enrico e calcia come lui. A vent’anni, senza tatuaggi né supercar, è il prescelto. Anche quando si tratta di affrontare i nemici storici
Scuola primaria Dante Alighieri, Peccioli, provincia di Pisa. La maestra chiede ai bimbi di prima di disegnare una chiesa. Vittorio apre l’astuccio, prende i colori e va. I compagni scelgono il giallo o il rosa tipico delle facciate delle chiese stuccate, alcuni il beige della pietra medievale. Poi il rosso delle tegole, il marrone dei portali, il verde, l’azzurro e di nuovo il rosa per i rosoni. Vittorio come gli altri sceglie il rosa. Poi il viola e l’arancione. E’ tra i primi a consegnare: non c’è una croce, non c’è una campana e quindi neanche il campanile. C’è un uomo: la faccia rosa, le braccia, il corpo e le gambe viola, le scarpe arancioni, con i tacchetti. Vittorio ma che cosa hai fatto? “Chiesa, il giocatore della Fiorentina”. Applausi per lui. Perché la passione servirà. Il sorriso che genera questa storia accaduta qualche mese fa è la conseguenza della constatazione che il calcio funziona. Che i calciatori funzionano. Che non è vero che “i messaggi sono sbagliati”, che gli “atteggiamenti dei calciatori influiscono negativamente”.
Non è vero tutto ciò che è facile, tutto ciò che diventa luogo comune. E Federico Chiesa te lo dimostra. E’ opposto al paradigma del giocatore giovane viziato, del ragazzo arrogante. Non è neanche il termine di paragone: è la smentita secca di quello che è diventato un cliché e prescinde dal fatto che sia visivamente diverso dagli altri. Non ha tatuaggi, ha capelli non alla moda, non ha macchine dorate. Ma questo è gusto personale, non valore morale. Chiesa riabilita chi ha una storia analoga di sacrifici, fatica, voglia, impegno, amore per il calcio però ha tatuaggi, orecchini, sgasa in Lamborghini. Se gli chiedono della sua diversità si scopre una risposta che ha molto a che fare con la sua generazione: l’estetica non è altro che una manifestazione della personalità, non una manifestazione di appartenenza a qualcosa. Prendiamoci quindi Chiesa come simbolo perché lo merita e perché con lui per un paradosso comunicativo parleremo con meno pregiudizio degli altri della sua età. Prendiamoci Chiesa perché è forte e perché per come gioca, per quello che ha fatto finora si prepara a diventare una certezza del calcio italiano.
E’ opposto al paradigma del giocatore giovane viziato, del ragazzo arrogante. E’ la smentita di quello che è diventato un cliché
C’è solo un problema, che poi non è un problema: parlare di Federico significa automaticamente parlare di suo padre Enrico. Per la verità gli sforzi per provare a decontestualizzarlo dalla famiglia sono stati molto rilevanti: è una di quelle storie che si scrivono da sole, perché complicarla? Padre-figlio, la somiglianza fisica, il calcio, i gol, i vecchi video, le nuove immagini, lo stesso numero. E’ un piatto che si serve comodamente con tutti i criteri della penetrazione nella società. E però è anche vero che tutti gli ingredienti qui sono messi nella maniera giusta, con una naturalezza che alimenta la mitologia della storia stessa. Anche Paolo e Cesare Maldini erano una storia facile e bella per definizione, ma avevano due ruoli diversi (all’inizio), avevano due stili diversi, appartenevano a due calci diversi. Qui no: la distanza tra gli anni Novanta di Enrico e i Duemiladieci-venti di Federico è decisamente inferiore a quella tra gli anni Sessanta di Cesare e i Novanta di Paolo. Per velocità di gioco, per copertura televisiva, per spettacolarizzazione in genere. Poi c’è la questione estetica: sono calcisticamente identici. Federico corre come il padre e calcia come il padre. Per una volta, quindi, oltre alla comodità c’è la realtà pallonara: li sovrapponi perché funziona narrativamente e perché funziona calcisticamente. Poi c’è quel video, diventato virale qualche settimana fa: Federico a tre anni in braccio a Enrico, intervistato da Franco Ligas. Domanda: “Adesso che non c’è più Batistuta chi li farà i gol per la Fiorentina, visto che papà non ne segna tanti?”. Risposta: “Io, li faccio io”. Tra commozione e sorrisi questa storia comincia qui e arriva adesso a Fiorentina-Juventus. Che per uno nato e cresciuto nella Viola non è esattamente una partita normale. A vent’anni, Chiesa ha un carico sulle spalle che suo padre non aveva. E’ l’aspettativa. E’ il prescelto. Non solo per Firenze, ma è di Firenze che si parla adesso. Perché è la sua città in senso letterale: è nato a Genova per sbaglio o quasi, visto che Enrico non era già più un calciatore della Sampdoria il 25 ottobre del 1997. Nonostante la romantica risposta, quando Franco Ligas lo intervistava casualmente nessuno ovviamente avrebbe potuto immaginare che nel 2007, Federico sarebbe già entrato nel settore giovanile della Fiorentina: 9 anni, pulcini. Fa tutto: esordienti, giovanissimi, poi Allievi. Dove solitamente si vede se può essere qualcosa di vero e dove Federico diventa vero. Perché gioca e segna. Ma soprattutto gioca. Punta esterna, a volte anche quarto o quinto a destra o a sinistra. E però i gol. Dicono ne abbia sempre fatti più di Enrico: le statistiche delle giovanili non ci sono, c’è invece il dato di oggi: 9 gol in 58 partite con la Viola tra serie A e Europa League. Alla stessa età suo padre era a zero gol e una sola presenza in A. Paragone impossibile, ma suggestivo.
E’ molto una questione di coraggio di altri, oltre che di bravura sua. Perché senza Paulo Sousa forse non ci sarebbe questo Chiesa, o quantomeno non sarebbe arrivato così presto. Era il precampionato della scorsa stagione: Federico fu aggregato alla prima squadra a Moena. Lì, Sousa cominciò a provarlo. Un po’ come aveva fatto l’anno prima con Bernardeschi, diventato titolare per decisione in ritiro. Preparazione, allunghi, lavoro atletico, poi la palla, poi la tattica, poi le partitelle. Chiesa dentro, una volta qui, una lì. Come uno in prova, ma più che in prova. Prima giornata di campionato: Juventus-Fiorentina. Sousa annuncia la formazione: Federico Chiesa titolare. “Sono sbiancato”, ripete ogni volta che qualcuno gli ricorda quel momento. “A Sousa devo il 70 per cento di quello che sono ora. Lo considero un genio”. Il racconto di quell’esordio l’ha fatto Tommaso Giagni: “Si trova davanti Buffon, che a Parma era compagno di squadra del padre e Federico da bambino vedeva spesso a casa. Si trova davanti Dani Alves, che Federico aveva da poco acquistato per la sua squadra di Fifa alla Playstation. All’intervallo, quella sera, Federico si attarda nello spogliatoio dello Juventus Stadium per gestire la tensione. Al rientro trova delle porte chiuse, e uno steward che lo trattiene: ‘Aspetta che ti deve vedere il mio superiore. Non possiamo far entrare in campo chiunque’. Lui risponde: ‘Mi scusi ma io avevo giocato, prima’”.
“Mi piace il calcio fatto di bandiere”, ha detto. Una frase bella e giustamente acerba: a vent’anni è una meraviglia
La faccia da bravo ragazzo evidentemente un po’ di confusione deve averla creata. Oggi, invece, non la crea più. Non in campo, dove la timidezza che sembra un tratto chiaro del suo carattere fuori, non esiste. Anzi: è irruento, è vorace. Ha una corsa agile e potente al tempo stesso. La potenza è direttamente proporzionale alla voglia. Diceva di non sentirsi simile al padre, come stile di gioco. In realtà la somiglianza è sempre più chiara. Nell’andatura, nel modo di aprirsi lo spazio, nel modo di calciare. Calcia bene con entrambi i piedi, preferisce accentrarsi da sinistra a destra e calciare. A giro, ma forte. Il gol fatto con il Bologna una settimana fa ne è una prova. Si può serenamente dire che quella sia la sua giocata, il che non vuol dire che sia l’unica. Perché gli piace molto altro, compresa la capacità di stare dentro l’area ad aspettare il tap in.
Quello che colpisce adesso, dopo quasi sessanta partite da professionista è vederlo così ancora stupito. Di sé e del mondo che lo circonda. Un po’ come ricordare continuamente il giorno in cui ha segnato il primo gol in A: “Non sapevo cosa fare dopo. E’ stata un’emozione incredibile segnare la prima rete in serie A. Non mi voglio però fermare qui, voglio dare sempre il 200 per cento in ogni partita per continuare a migliorare. Oggi abbiamo lottato e vinto una gara difficile. Sono a Firenze da dieci anni e mi piace stare qui. Consigli di mio padre? Mio padre mi dà molti consigli, ma soprattutto dal punto di vista comportamentale. Mi ha accompagnato a firmare il rinnovo, ma non è mai entrato in merito alle questioni tecniche, a quelle ci pensa l’allenatore”. Quell’allenatore era Sousa che a qualche metro di distanza stava parlando in conferenza stampa: “E’ un calciatore importante che con la sua voglia si sta imponendo”. Un anno dopo, appena. Quello stesso allenatore parla di Federico come di una garanzia. In un video fatto per SkySport alla vigilia di Fiorentina-Juventus, Sousa ha detto: “Lui e Bernardeschi sono il futuro del calcio italiano. Ha fatto bene a rimanere a Firenze, dove può giocare e dimostrare ogni giorno di essere un calciatore che fa la differenza”.
“Adesso che non c’è più Batistuta chi li farà i gol per la Fiorentina, visto che papà non ne segna tanti?”. Risposta: “Io”
Rimanere a Firenze è un tema importante. Nel senso che già alla fine della scorsa stagione si parlava di un potenziale passaggio all’Inter. Lui, secondo Pioli, è voluto rimanere. Così il suo attuale allenatore ha potuto dire qualche giorno fa: “Lui e Bernardeschi? Mi prendo il Federico che è voluto rimanere a Firenze per fare qualcosa di importante qui”. Qualche ora prima, ricevendo un premio, Chiesa aveva detto: “Un gol alla Juve? Sarebbe un sogno, ma l’importante è la vittoria della Fiorentina”. Il noi prima dell’io per citare una frase detta da suo padre per complimentarsi con il suo ragazzo. L’altruismo è una categoria pallonara precisa più che una categoria dello spirito. E’ difficile imporlo, anzi impossibile. Chiesa ce l’ha. Lo dice Gigi Di Biagio che lo ha avuto nella Under 21 con la quale ha giocato l’Europeo lo scorso giugno. Adesso che Di Biagio sarà il ct della Nazionale a interim probabilmente lo trascinerà con sé, laddove Ventura l’aveva provato per uno degli stage con i giovani più promettenti. Alla fine di quell’esperienza aveva detto: “Torno con conoscenze in più, tattiche e calcistiche, sulla Nazionale e su come vede il calcio Ventura, su come si sta in campo in nazionale. Ho imparato qualcosa di importante per il futuro. Tatticamente sono duttile. Con Ventura ho un terzino alle spalle e devo fare meno in fase difensiva, ma comunque non sarebbe un problema: nella Fiorentina sono abituato a ripiegare”. Con Di Biagio giocherà, perché è il mister che dopo Sousa l’ha capito meglio. Prima dell’Europeo non era certo di andare. E disse sì: “Ci siamo stretti la mano e salutati. Io so che, per essere nella lista dei convocati dell’Europeo, devo continuare a dare il massimo. Esserci è il mio obiettivo, l’altro è raggiungere l’Europa League con la Fiorentina, ormai sono da undici anni a Firenze. Ringrazio Sousa, che in tre giorni ha deciso il mio futuro durante il ritiro, e i miei genitori, che mi sono sempre stati vicino. E’ grazie a loro che sono arrivato a Coverciano”. A Coverciano dove ripiegava e dove ha imparato qualcosa che in realtà aveva dentro.
L’altruismo è una categoria pallonara precisa più che una categoria dello spirito. E’ difficile imporlo. Chiesa ce l’ha
Qua c’è la differenza più grande con suo papà: Federico è un calciatore più totale di Enrico. Torna di più, difende di più: non è solo una questione di ruolo, quanto di atteggiamento. L’età influisce, certo. L’unicità di un calciatore in grado di fare molto bene la fase offensiva e di essere utile in ripiegamento lo mette in condizione di essere potenzialmente appetibile per qualunque squadra. Il resto è contorno. Importante, ma contorno. Parliamo del carattere, della riservatezza, dell’umiltà. Tutto ciò che non è funzionale al suo stile di gioco fa parte di qualcosa che vale la pena di essere raccontato solo per conoscerlo umanamente meglio. Su questo i giornali si sono scatenati. Dei suoi genitori dice: “Mi hanno dato le istruzioni per non perdermi in un mondo luccicante ma pieno di insidie”. Ancora più utilizzate due frasi che si ritrovano: “Non mi vedrete mai girare in Cayenne” e “Se non avessi fatto il calciatore avrei fatto il fisico”. Qui vale la pena spendere qualche riflessione in più. Aver studiato lo differenzia più di molte altre cose. Non è classismo, è che per esempio ha una varietà lessicale e di proposizione oratoria più alta e più articolata della media dei calciatori, nonostante l’età. Questo lo porta a essere spendibile e interessante. Cioè quando parla Chiesa, i giornali sorridono. Come ha fatto Benedetto Ferrara su Repubblica: “‘I miei genitori mi hanno dato la possibilità di provare a diventare un calciatore dandomi gli strumenti per costruirmi un’alternativa. Per questo ho studiato alla scuola americana. Per imparare le lingue, per provare a vivere open mind. Poi l’università’. Scienze motorie, giusto? ‘Sì, ma ora voglio cambiare facoltà’. Cioè? ‘Sto pensando di iscrivermi a chimica’. Un bell’impegno. ‘Amo le scienze. Dalle molecole all’universo. Se non avessi fatto il calciatore avrei voluto fare il fisico. Ma mettermi ora a studiare Fisica forse è troppo impegnativo’”.
Lo diceva meno di un anno fa. Non è cambiato molto, nonostante sia cambiato tutto. A cominciare dal fatto che oggi non è più in discussione che il suo futuro sia in un campo di calcio per i prossimi quindici anni almeno. A Firenze, poi chissà. Che non è detto che necessariamente sia altrove: “Mi piace il calcio fatto di bandiere”, ha detto. Una frase bella e giustamente acerba: a vent’anni è una meraviglia. Si è aperto il cuore della città, quella nella quale non è nato, ma della quale si sente parte da sempre. Ne è un figlio, qualcuno vuole che ne diventi un giorno molto vicino un padre.
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