Fausto Coppi (foto LaPresse)

Un uomo solo al comando. La Cuneo-Pinerolo di Fausto Coppi: meno 69 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

La fuga del Campionissimo al Giro d'Italia del 1949 è per molti l'impresa più eccezionale della storia del ciclismo. Una fuga di 192 chilometri diventata letteratura grazie a Dino Buzzati

Sul piccolo altipiano tra il fiume Stura e il torrente Gesso si erano rifugiati che stava per finire il dodicesimo secolo. Scappavano da Milano perché il Barbarossa aveva deciso che nella città non poteva esistere un libero comune. Tentarono a ovest, al limitar della pianura, lì dove iniziava la via per la Francia. Si diedero le loro leggi, nessun feudo, nessun vassallo o valvassore, solo tre reggenti per assicurare il rispetto dei dazi e della giustizia. Durarono trent’anni. Poi a Cuneo arrivò il marchesato di Saluzzo e gli eredi dei sobillatori milanesi presero la via solitaria dei monti. L’alternativa era la gogna.

Su quella stessa strada che da Cuneo si inerpica verso il Colle della Maddalena settecento anni dopo iniziò un’altra fuga. Questa volta non per evitare il nero delle vesti del boia, ma per inseguire il rosa di una maglia. Questa volta non su di un cavallo, ma in sella a una bicicletta. Questa volta non collettiva, ma solitaria. “Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. Così almeno esordì la radiocronaca di Mario Ferretti. E quella non fu una tappa, fu la tappa, non ciclismo, epica.

 

“Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. È troppo solenne e glorioso il paragone? Ma a che cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti a noi rimasti non entrassero a far parte della nostra piccola vita? Fausto Coppi certo non ha la gelida crudeltà di Achille: anzi, tra i due campioni, è certo il più cordiale e amabile. Ma in Bartali anche se scostante e orso, anche se inconsapevole, c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dei”.

 

Dino Buzzati fu testimone oculare di quella che anni dopo descrisse come l’“incanto del pedalare emerso dall’infernale fatica”, del lungo e maestoso volo dell’Airone. Centonovantadue chilometri di fuga, da solo tra cinque passi alpini che inducono reverenza anche uno alla volta, figuriamoci tutti assieme. Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere, poi planata finale verso Pinerolo.

Centonovantadue chilometri pedalati in solitaria su e giù da vette che superavano i duemila metri. Centonovantadue chilometri alla testa di un gruppo che si era disintegrato in una corsa che più per la vittoria era diventata per la sopravvivenza. Fausto Coppi apriva nel fango la strada di quei tornanti alpini mai affrontati al Giro d’Italia come se il fango sotto le sue ruote non ci fosse, mentre gli altri si erano incagliati ancora a valle. Anche Gino Bartali, anche il grande rivale che proprio in salita era riuscito a mettere in difficoltà più di una volta il Campionissimo. Ma in quella Cuneo-Pinerolo era anche lui primo spettatore di un palcoscenico che correva minuti avanti. Ne passarono undici e cinquantadue secondi prima di vederlo passare sotto lo striscione d’arrivo. Ce ne vollero quasi venti perché arrivasse il primo gruppetto: Martini-Cottur-Bresci-Astrua. Ce ne vollero ventitré e trentasette secondi per vedere concludere la tappa alla maglia rosa, Adolfo Leoni.

 

A Coppi sarebbe bastato pedalare normalmente per staccare Leoni, corridore potente ma inadatto alle lunghe salite, decise di dominare. Ancor più di come era riuscito a fare sulle Dolomiti, quando Bartali finì a oltre sei minuti e tutti gli altri a un quarto d’ora. Ma quando vide Primo Volpi scattare e alle sue spalle portarsi Gino Bartali che con il fedele Andrea Carrea, detto Sandrino, era fermo a bordo strada con ancora in mano l’oleatore per lubrificare la catena, si sentì in dovere di dimostrare loro che Fausto Coppi non poteva essere staccato, nemmeno con la furbizia. E così li raggiunse. E così appena Bartali indietreggiò per avvicinarsi all’ammiraglia decise che quello era il momento di salutare tutti, di andarsene solo. Anche se si pedalava solo da un’ora. Anche se mancava tutta una tappa prima dell’arrivo.

 

Vincitore: Fausto Coppi in 125 ore, 25 minuti e 50 secondi;

secondo classificato: Gino Bartali a 23 minuti e 47 secondi; terzo classificato: Giordano Cottur a 38 minuti e 27 secondi;

chilometri percorsi: 4.088.