Gabriele D'Annunzio

Il senso di D'Annunzio per il Giro d'Italia (e lo sgarbo di Olmo): meno 77 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

L'edizione del 1936 fece tappa a Gardone Riviera, sotto il Vittoriale degli italiani. Un gesto che non entusiasmò il vate, che davanti a Bartali lodò invece che i corridori, la sua esperienza fiumana

Erano le tre del pomeriggio del 5 giugno 1936 quando ventun colpi di cannone (a salve) esplosero nel cielo di Gardone Riviera. Arrivava il Giro d’Italia e arrivava per rendere sportivo omaggio al cittadino più illustre del paese, Gabriele D’Annunzio. L’arrivo posto sotto il complesso costruito con l'aiuto dell'architetto Giancarlo Maroni. Il ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi aveva lavorato a lungo all’evento e l’incontro doveva essere una festa, un tributo al grande poeta che ormai viveva esiliato nel Vittoriale degli italiani. Anche Benito Mussolini, che da anni ormai considerava la presenza del vate non più in linea con il sentimento fascista, aveva avallato l’evento.

Tutto era pronto. La discesa dei corridori da Riva del Garda con giusto l’ascesa degli 11 chilometri che portano al Monte Ballino a inizio tappa a rendere il tutto meno banale, meno marchetta, doveva incontrarsi con quella di D’Annunzio dalla scalinata della sua dimora. I corridori arrivarono a Gardone, regolati allo sprint da Gino Bartali. I cannoni spararono, perché “tutte le vittorie sportive devono essere salutate col fuoco”, i doni arrivarono, e D’Annunzio per nulla interessato alle biciclette iniziò con un monologo sulla sua grande missione a Fiume. Non pronunciò mai la parola bicicletta. L’anno successivo nemmeno si presentò alla premiazione. Il poeta era completamente disinteressato al ciclismo e per di più non aveva preso bene un articolo che era uscito sul Giornale d’Italia nel quale il giornalista paragonò “l’incedere eccellente ed elegante” di Giuseppe Olmo verso Arezzo alle sue opere.

 

“Nessun uomo su di una bicicletta può competere con Olmo, il suo procedere sui pedali è una sorta di immobilità in movimento, dove sono solo le sue gambe a vorticare mentre tutto il restante corpo è fisso in una posa di armonia”, scrisse Bruno Roghi.

Un incedere che contro il tempo, nelle prove a cronometro, trovava la sua collocazione più precisa in un ciclismo che stava trasformandosi con l’introduzione dei primi rudimentali sistemi di cambio e che con essi modificava le caratteristiche di corridore vincente. Fosse nato dieci anni prima Olmo “sarebbe stato ricordato come il più vincente della sua epoca”, ricordò Orio Vergani anni dopo, “quando a essere discrimine erano la potenza e l’efficacia della pedalata, più che la sofferenza in salita”.

Giuseppe Olmo nel 1935 ottenne il record dell’Ora, conquistò la Milano-Sanremo e salì sul terzo gradino del podio del Giro. L’anno dopo provò a ritardare l’ascesa di Gino Bartali. Vinse 10 tappe, frantumò le speranze di tutti a cronometro, ma si dovette piegare alla forza di Ginettaccio in salita. Fu secondo a Milano. Fu l’ultimo Giro d’Italia nel quale riuscì a essere protagonista, reso antico a 27 anni dal progresso che aveva colpito il mondo del ciclismo.

 

 

Vincitore: Gino Bartali in 120 ore, 12 minuti e 30 secondi; 

secondo classificato: Giuseppe Olmo a 2 minuti e 36 secondi; terzo classificato: Severino Canavesi a 7 minuti e 49 secondi; 

chilometri percorsi: 3.766.