Lance Armstrong (foto LaPresse)

E' colpa di Trump se abbiamo avuto Lance Armstrong

Giovanni Battistuzzi
Nel 1989 da Albany, New York, a Atlantic City, New Jersey, si corse il Tour de Trump, la gara a tappe che secondo The Donald in pochi anni “sarebbe diventata più importante del Tour de France”. Fu in quell'occasione che il corridore texano decise di diventare professionista.

In quella confusione, di persone e biciclette, suoni e schiamazzi, la sua attenzione si concentra su di un sorriso. Lei è April, è bionda, è alta e secca, con i lineamenti duri sul viso, gli occhi di un azzurro vitreo dal taglio orientale, la grazia nel muoversi di una grande modella. E quel sorriso, qualcosa di magnifico. Affianco a lei un uomo. E’ sgraziato e ridicolo, gambe grosse e braccia fini, un cappellino in testa e la pelle a due colori. Lei gli dà mazzo di fiori, gli alza la mano, soprattutto gli schiocca un bacio sulla guancia e parla con lui. Nonostante quella maglia che ha addosso. Quei colori flesciati, fluo, accostati in modo ardito, verde e blu, ma sono gli anni Ottanta e allora tutto questo era normalità, esigenza estetica. Lei saluta, con l’eleganza di gambe e spostamenti sorride, se ne va. Lui è in quel momento che decide quale sarebbe stata la sua strada, quale sarebbe stata la sua vita, il suo obiettivo: a pedali, ma vincenti, perché era lì che avrebbe voluto stare, su quel palco, accanto a lei. Lei, April, immagine della vittoria altrui; lui, Lance, accanto a lei, a concederle il teatro del successo, anche solo per un bacio, per qualche parola.

 

Lui, quel ragazzino che guarda i ciclisti al termine della gara, tra tanta gente che così tante biciclette non le aveva mai viste e forse neppure immaginate nell’America di allora, nell’anonimato dei tifosi non ci sarebbe stato a lungo. L’ha deciso appena un attimo prima: giù dal podio non ci sarebbe rimasto. Perché lui è Lance Armstrong, mica uno qualsiasi. Perché lui è Lance Armstrong, ha 18 anni e la convinzione, giustificata, di voler essere il migliore. E’ il 1989, tra i grattacieli, le spiagge e i casinò di Atlantic City ci è finito grazie a un viaggio vinto in una gara di triathlon, e quello che gli sta attorno è la prima grande corsa americana, il Tour de Trump, quella che in pochi anni “sarebbe diventata più importante del Tour de France”, almeno a detta di chi quell’evento lo organizzava, Billy Packer, ex commentatore della CBS, e finanziava, Donald Trump, allora imprenditore, oggi presidente degli Stati Uniti d’America.

 



 

La bicicletta negli anni Ottanta in America era una cosa sola: ruote grasse e sterrato, campagna e avventura. Non certo asfalto e velocità, non certo come gli europei, che la bici l’avevano inventata, ma erano stati loro, gli americani, a cambiarla, a farla diventare all-road, mountain bike. Nel 1986 però Greg LeMond aveva issato la bandiera a stelle e strisce sul gradino più alto del podio del Tour de France; due anni dopo Andrew Hampsten aveva fatto lo stesso su quello del Giro d’Italia, dopo una nevicata epica sul Passo Gavia che aveva sconvolto la classifica e congelato i sogni rosa del Coppino, Franco Chioccioli. E tutto era cambiato, aveva avuto un seguito popolare. LeMond divenne celebre, l’americano che castigava tutti nello sport più europeo che esiste. E a casa altrui. Perché in America non c’erano grandi corse e neppure grandi squadre, una lacuna che andava al più presto coperta.

 


Andrew Hampsten sul Passo Gavia nel Giro del 1988


 

Nel 1987 la 7-Eleven, il migliore team statunitense, acquisì nuovi sponsor, si ingrandì, perché gli Stati Uniti non potevano non avere una formazione competitiva. Un anno dopo si iniziò a tappare l’ultima falla, perché gli Stati Uniti non potevano non avere una grande corsa. La notizia che in aprile Greg LeMond, l’eroe californiano delle due ruote a pedali, rimase impallinato e ferito dal cognato per errore in una battuta di caccia fece il giro degli stati federali e commosse moltissime persone. L’ospedale dove era ricoverato venne inondato di lettere di auguri e pronta guarigione. Il ritorno alle corse fu seguitissimo. LeMond avrebbe avuto la sua gara a tappe e Billy Packer si intestardì nella missione di portare il grande ciclismo negli States. Cercò per mesi sponsor e finanziatori, trovò qualche contributo e molti rifiuti, poi incappò in Donald Trump. Packer di ciclismo era poco più che a digiuno, Trump sapeva a mala pena come fosse fatta una bicicletta, ma l’idea era ambiziosa, a tratti folle, l’investimento era alto, ma molto meno di quello necessario per acquistare una franchigia di football o baseball o basket. E poi il proprio nome su di una corsa, quella che “sarebbe diventata più importante del Tour de France”, era una pubblicità eccellente per i propri affari.

 

 

Il Tour de Trump viene corso per la prima volta nel 1989. Parte da Albany, nello stato di New York, termina ad Atlantic City, sotto il casinò di proprietà di The Donald. In mezzo 10 tappe, un arrivo in salita e una cronometro conclusiva. Da subito si capisce che non sarà una corsa come le altre. Innanzitutto il montepremi, esorbitante e inconsueto, di poco inferiore al Tour de France, la competizione più importante e ricca al mondo: 250 mila dollari, 50 mila per il vincitore. E poi i protagonisti. Corridori di prima fascia che ignorano la Vuelta di Spagna, la terza corsa a tappe più importante nel ciclismo, pur di esserci. Ci sono Greg LeMond, che a luglio aveva vinto la sua seconda Grande Boucle, Andrew Hampsten, che l'anno prima aveva fatto suo il Giro, Steve Bauer, secondo alla Parigi-Roubaix ad aprile, Davis Phinney, Olaf Ludwig, Viatcheslav Ekimov, capitano della nazionale dell'Unione Sovietica, Eric Vanderaerden, vincitore del Fiandre del 1985 e della Roubaix del 1987 e 137 gare in carriera. E il belga avrebbe vinto anche quell'edizione se non fosse stato penalizzato dalla moto della direzione corsa che lo precede nell'ultima cronometro, facendogli sbagliare strada. Finisce terzo. Primo è Dag-Otto Lauritzen, norvegese, energumeno da pianura, sofferenze e fughe, che all'epoca corre per la 7-Eleven, la squadra di casa.

 

La prima edizione è un successo: “Gli ho messo il mio nome perché credo che abbia un grande futuro e credo che mi basteranno pochi anni per farlo diventare più importante del Tour de France”, dirà il tycoon. Le strade sono piene, gli ascolti tv alti, gli sponsor paganti. Gli 800 mila di dollari investiti da Trump per organizzare tutto sono ripresi, e con gli interessi. Nel 1990 si ripete. Ancora grandi protagonisti e ancora grande spettacolo. L'ultimo però a marchio Trump. Nel 1991 infatti The Donald è sull'orlo del fallimento a causa di alcuni investimenti sbagliati, in primis quello del Taj Mahal, il suo terzo casinò ad Atlantic City finanziato a suon di bon spazzatura. The Donald toglie la sponsorizzazione alla corsa, che rischia così di non essere corsa. Interverrà il gruppo DuPont a salvarla. Verrà corsa fino al 1996 prima di scomparire e le due ultime edizioni saranno vinte da Lance Armstrong.

 

"Capii di voler diventare il numero uno nel ciclismo al Tour de Trump del 1989, per questo le vittorie del 1995 e del 1996 del Tour DuPont – la nuova denominazione della stessa corsa –, non furono due vittorie come le altre", disse il corridore nel 2002 al Newsweek. Al Tour DuPont finì la prima parte della vita di Lance. Gli venne diagnosticato un cancro ai testicoli dopo pochi mesi. Ritornò nel 1998 dopo aver rischiato di morire. Da lì iniziò a scrivere alcune delle pagine più belle del ciclismo, una storia di redenzione e rinascita che emozionò tanti, che mandò in bici molti. Una storia che però si trasformò in fuffa, truffa, chimica, fatta di Tour de France vinti, sette, a motore truccato, e molto. Ma questa è un'altra storia, che con il sorriso di April non c'entra più niente.

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