Speciale online 15:30

Armstrong fa i nomi. L'insopportabile moralismo dei pentiti del doping

Giovanni Battistuzzi

Lance Armstrong parla sotto giuramento e fa i nomi. I soliti, quelli già sentiti e sulla bocca di tutti: il trainer Pepi Marti, i "dottoroni" dello sport da laboratorio Pedro Celaya, Luis Garcia del Moral e Michele Ferrari. E poi i nuovi entrati nella lista, i fornitori, la massaggiatrice Emma O'Reilly, i meccanici Julien de Vriese e Philippe Marie. Infine Johan Bruyneel, direttore sportivo dei grandi successi dello statunitense alla Us Postal e Dicovery Channel. Lo ha fatto lo scorso novembre in una causa intentatagli dalla compagnia di assicurazioni Acceptance che cerca di recuperare i tre milioni di dollari pagati al texano come bonus per le sue vittorie al Tour del France dal 1999 al 2005. La notizia però è uscita solo ieri sulle pagine di Usa Today.

    Lance Armstrong parla sotto giuramento e fa i nomi. I soliti, quelli già sentiti e sulla bocca di tutti: il trainer Pepi Marti, i "dottoroni" dello sport da laboratorio Pedro Celaya, Luis Garcia del Moral e Michele Ferrari. E poi i nuovi entrati nella lista, i fornitori, la massaggiatrice Emma O'Reilly, i meccanici Julien de Vriese e Philippe Marie. Infine Johan Bruyneel, direttore sportivo dei grandi successi dello statunitense alla Us Postal e Dicovery Channel. Lo ha fatto lo scorso novembre in una causa intentatagli dalla compagnia di assicurazioni Acceptance che cerca di recuperare i tre milioni di dollari pagati al texano come bonus per le sue vittorie al Tour del France dal 1999 al 2005. La notizia però è uscita solo ieri sulle pagine di Usa Today.

    Sette Tour de France consecutivi. Un dominio del genere non si era mai visto. Li vinse proprio lui, Lance Armstrong. Si ritirò nel 2005, ritornò in bicicletta nel 2009, maglia Astana, sempre con Bruyneel in ammiraglia. Più ombre che luci, poi due anni di quasi anonimato alla RadioShack, infine l'ultimo e definitivo addio alle armi. Nel 2012, il 24 agosto, la squalifica a posteriori da parte dell'Usada (United States Anti-Doping Agency) che gli ha tolto tutti i risultati ottenuti dal 1998 per "uso sistematico e continuativo di sostanze dopanti, come eritropoietina (Epo), testosterone e corticosteroidi". Fine di un'epoca, il ciclismo che si pulisce la faccia dopo un periodo infame fatto di scandali e chimica.

    Ma il doping passato si riprende sempre la scena. La storia è la stessa, già vista e sentita. "Campioni" beccati, ammissioni di non colpevolezza, poi ammissioni di colpevolezza, infine pentimenti e confessioni. Lo scenario il medesimo. Il ciclismo dal passato tumultuoso, pieno di scandali, tradito dai furbi, ma con la certezza di essere pulito. A parole. I fatti sono poi sempre diversi. Ogni tanto un nome viene portato alla ribalta, etichettato: dopato. Il resto è ricerca ritardata, in streaming, il mondo delle chimica che corre, medici che scovano nuovi metodi, ciclisti che si lasciano convincere dai prodigi farmacologici, l'anti-doping che arriva qualche anno dopo. Di passi avanti ne sono stati fatti, il passaporto biologico aiuta, i controlli sono più severi e precisi, ma è la sostanza a non cambiare. Il ciclismo è business, vincere vuol dire soldi e sponsor. E per vincere il doping è la benzina che muove le gambe più velocemente, non più la "bomba", da prendere quando serve, di coppiana memoria. Perché il ciclismo è riflesso del mondo e se si vogliono mutare queste dinamiche va cambiata l'idea stessa di sport, eliminare il motore trainante del mondo sportivo, ovvero gli sponsor e gli ingaggi. Chi è disposto a farlo? Nessuno. Non le istituzioni, non i ciclisti, nemmeno il pubblico. E allora tanto vale tenerci il doping, tenerci Armstrong.

    Ecco quindi l'Armstrong che parla, che indica col dito i colpevoli delle sue vittorie, che fa quello che aveva fatto nel 2003 il suo arcinemico Filippo Simeoni, "il mentitore assoluto", quello a cui promise "finché sarò in gruppo tu non vincerai più", dopo che il ciclista italiano confessò di aver comprato sostanze dopanti dal medico (e amico di Lance) Michele Ferrari. Nel 2004 l'americano mantenne la promessa. Terzultima tappa del Tour de France, Simeoni va in fuga assieme ad altri sei corridori, Armstrong, dominatore assoluto della corsa francese, si riporta sui primi, si piazza alla ruota dell'italiano e chiarisce ai fuggitivi che se Filippo rimarrà con loro la fuga verrà ripresa, costringendo di fatto Simeoni a rialzarsi e andando così contro ad una regola non scritta del ciclismo: quando tutto è deciso, la maglia gialla non fa lavorare la squadra per andare a prendere le fughe. Ora Armstrong ha parlato, Simeoni, signore, invece è stato zitto. Chapeau.