Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan (foto LaPresse)

Cos'è l'Erdoganomics?

Eugenio Dacrema

La crisi monetaria e la grande visione di Erdogan per l'economia turca del futuro

Mentre la lira turca tocca nuovi minimi storici sul dollaro e tutti si chiedono se il potenziale disastro finanziario possa contagiare i paesi europei, vale la pena dare un’occhiata più da vicino a ciò che sta accadendo in Turchia, fino a non troppo tempo fa tra le mete preferite di investitori e industriali. Molto di questa crisi ha a che fare con un mutato contesto internazionale: la crisi finanziaria è perlopiù finita, così come il quantitative easing di molte economie sviluppate a partire dagli Stati Uniti. Quei soldi che avevano alimentato negli anni scorsi il credito facile in tante economie in via di sviluppo come la Turchia sono per gran parte tornati verso mercati più sicuri ora che il rialzo dei loro tassi li rende finalmente lucrativi. Ma non c’è solo questo. E non ci sono solo le sanzioni e le tariffe di Trump, che in vista delle elezioni di midterm ha deciso di ricompattare il suo elettorato religioso tentando di ottenere a ogni costo la liberazione del reverendo Brunson dalle carceri turche. C’è anche, se non soprattutto, una precisa politica del governo turco che ha reso questa crisi possibile, alienando nell’ultimo biennio la fiducia di investitori e analisti. Una politica che ha trovato la sua espressione più compiuta nel discorso che il presidente turco ha tenuto durante la recente campagna elettorale davanti agli investitori della City di Londra, durante il quale ha affermato di credere fermamente nella necessità di mantenere bassi i tassi di interesse della Banca Centrale a ogni costo, e che, a suo parere e contro ogni ortodossia economia, il loro rialzo porti inevitabilmente a maggiore inflazione. Sulle testate internazionali queste affermazioni, reiterate anche in queste ultime settimane, vengono spesso liquidate come frutto dell’egomania e della rigidità ideologica del Presidente turco. Ma visti gli effetti che rischiano di avere sull’economia internazionale, vale forse la pena di tentare di capire se davvero siamo di fronte solo alle irrazionali elucubrazioni di un dittatore ormai circondato solo da yes-man o se dietro alle dichiarazioni superficiali si sta sviluppando una visione più compiuta: una vera e propria “Erdoganomics” contenente un’idea alternativa per l’economia turca del futuro. Se così fosse, i tassi di interesse mantenuti bassi a ogni costo farebbero parte di un disegno più grande, che andrebbe a includere una trasformazione dell’economia anche in campo industriale e commerciale.

Secondo Marco Florian, direttore Sviluppo Internazionale presso "South East Med Energy & Defense", l’Erdoganomics esiste eccome, e ne stiamo cominciando a vedere gli effetti. “si tratta di un mix di diverse misure, che spaziano dal campo finanziario a quello commerciale”. L’obiettivo sarebbe quello di ristrutturare profondamente il sistema economico e, soprattutto, “di riposizionarlo su un asse più lontano dall’Occidente e più vicino a potenze orientali come Cina e Russia”. Oggi la Turchia ha una forte dipendenza nei confronti soprattutto dell’Europa. Quest’ultima compra oltre la metà delle esportazioni turche ed è il primo mercato di origine delle importazioni. Capitali occidentali hanno alimentato la crescita economica e industriale del paese fin dall’ascesa di Erdogan nel 2002. Ed è proprio la loro fuga che in questi mesi sta mettendo in seria difficoltà la tenuta della valuta nazionale. Questa dipendenza dall’Occidente ha però anche lati negativi, a cominciare dall’enorme deficit di bilancia commerciale che il paese ha sviluppato in questi anni, dovuto soprattutto dalla disparità di valore tra le esportazioni turche verso l’Europa e i prodotti europei importati in Turchia. “Nonostante la notevole crescita del settore industriale dal 2002 a oggi, infatti, la percentuale di beni ad alta tecnologia prodotti in Turchia è rimasta ferma al 2%”, continua Florian. Questo ha reso le esportazioni turche scarsamente competitive rispetto ai prodotti europei, sia in Europa, sia su altri mercati. L’ortodossia economica vorrebbe che un tale deficit di partita corrente, arrivato nel 2017 a 5,5 miliardi di dollari, venisse appianato aumentando il valore aggiunto delle produzioni e la competitività del sistema industriale. Ma quelli dettati dall’ortodossia non sono i soli metodi esistenti; per esempio, come noi italiani sappiamo bene, esiste anche il metodo della svalutazione competitiva. L’insistenza di Erdogan negli ultimi due anni sul tenere bassi i tassi di interesse, grazie anche all’ormai ridotta indipendenza della Banca Centrale, avrebbe quindi lo scopo di portare a un deprezzamento pilotato della lira turca, con il duplice effetto di ridurre le importazioni, soprattutto di quei prodotti europei ad alto valore aggiunto, e aumentare le esportazioni, in primo luogo verso quei paesi in cui il prodotto industriale turco – economico, grazie alla svalutazione, e di medio livello tecnologico – è più richiesto: i mercati del Caucaso, dei Balcani, dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia. In questo senso, qualcosa si è cominciato a muovere già nella prima metà del 2018, quando finalmente l’Istituto statistico nazionale ha registrato una sensibile riduzione del deficit di partita corrente, causato proprio da una contrazione delle importazioni dall’Europa e un aumento delle esportazioni verso questi mercati emergenti.

Ma l’Erdoganomics non è solo una strategia commerciale basata sulla cara vecchia svalutazione competitiva. Secondo Marco Florian, nell’ossessione di Erdogan per i tassi di interesse c’è anche molta ideologia. “Erdogan si è formato all’interno della scuola islamica della Naqshbandiyya-Khaliddya che, come in generale la Sharia musulmana, condanna i prestiti a interesse”. Non a caso negli ultimi anni il governo turco ha infuso notevoli sforzi per trasformare Istanbul in un hub per la finanza islamica e per allacciare forti relazioni con nazioni musulmane – e danarose – come il Qatar, o con potenze emergenti con grande disponibilità finanziaria come la Cina. “Quella di Erdogan è una profonda riforma strutturale-ideologico-sociale dell’economia e della società, con la creazione di un sistema educativo alternativo a quello laico prevalente oggi. Un nuovo sistema basato su insegnamenti islamici, con al centro il culto del ‘turco pio’, un modello di cittadino alternativo, rurale, conservatore e legato a indissolubilmente al leader della nazionale e al suo partito, l’Akp. Un partito che mira esplicitamente a un dominio ‘multigenerazionale’”. Un ‘Nuovo Progetto’, come l’ha ribattezzato lo stesso Erdogan in alcuni discorsi, che mira alla creazione di una Turchia conservatrice, orgogliosa, poco internazionalizzata ma con una grande influenza sul mondo, che guardi per la prima volta in secoli non più verso ovest, ma verso est. Un progetto che, come tutte le grandi visioni, presenta azzardi e opportunità in egual misura, e che rischia ora di infrangersi, almeno in parte, contro le esigenze elettorali di Donald Trump.  

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