Ansa

L'editoriale del direttore

Governare l'algoritmo del rimbambimento social, senza divieti. Lezioni per il Natale da “Gioia mia”

Claudio Cerasa

Quando si sta con i figli serve educare, mostrare l'altro mondo possibile, per integrarlo con quello tecnologico. Il film di Margherita Spampinato è lì a ricordarci che le regole sono importanti, ma quello che può fare un papà, una mamma, una nonna, un nonno, una zia, uno zio vale più di un divieto

"Gioia mia” è quella rassicurante carezza verbale che ogni nipote con un nonno, una nonna, uno zio o una zia a sud di Roma ha ricevuto una volta nella vita. “Gioia mia, come sei cresciuto”. “Gioia mia, come sei sciupato”. “Gioia mia, come ti sei ridotto”. “Gioia mia, accura, che stasera freddo assai fa”. “Gioia mia” è quella cura speciale che le persone distanti trasferiscono sui picciriddi quando per qualche istante la distanza con i piccoli, che restano piccoli più o meno fino al matrimonio, si riduce, quando cioè un papà o una mamma si disfano furtivamente del figlio mettendolo nelle mani sapienti di chi ha visto molto nella sua vita. “Gioia mia” è un’onda di madeleine proustiana che accende ricordi improvvisi nelle menti di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di avere una nonna o una zia che dal loro angolo fuori dal tempo avevano la magia di fermare il tempo per trasformare in istanti eterni gli attimi passati insieme in un qualche pomeriggio estivo in una qualche stanza intrisa di vestiti ben ripiegati nei bauli sgorganti di naftalina.

 

Gioia mia, oggi, è però prima di tutto un film formidabile, girato da Margherita Spampinato, che con tocco leggero, ironico, sapurito, come si direbbe in Sicilia, ha trovato la chiave giusta, o se volete l’algoritmo giusto, per offrire un’alternativa alla via australiana dei divieti digitali applicati ai ragazzi discoli incapaci di governare l’isteria generata dall’eccessiva esposizione ai social. “Gioia mia”, film che anche senza il consenso dei genitori andrebbe proiettato nelle scuole italiane, ci ricorda che l’algoritmo in grado di trasformarsi in antidoto è lì di fronte a noi e coincide con un’idea che spesso i genitori pigri tendono a lasciare nella naftalina delle buone idee, incapaci di capire che per i nostri figli e i nostri nipoti la soluzione a tutto è in quattro lettere che abbiamo scelto di trasformare in un male da evitare, in una malattia da esorcizzare: la noia. “Gioia mia” è la storia di un bambino spedito in estate nel ragusano dai propri genitori a casa di un’anziana zia apparentemente arcigna. Una casa uguale a tutte le case che i nipoti con nonni e zii siciliani hanno visto almeno una volta nella vita: corridoi bui, tapparelle abbassate, arredi laccati, tovaglie di plastica, sfarfallio di ventagli, scatoloni chiusi con lo spago, crocifissi sulle pareti in ogni angolo delle stanze, biscotti rinsecchiti, custoditi da decenni, forse da secoli, in recipienti di porcellana – “mangiane un po’, gioia mia” – e un’elettricità utilizzata solo per l’essenziale: luci, lampadine, telefoni a muro. Non una casa immersa nel bosco, ma immersa nel ritmo lento e analogico di una casa che sfida gli algoritmi con la forza della lentezza. Ci si annoia a casa della zia, si gioca a carte, si guardano le pareti, si impara a cucinare, a stirare, a rifare il letto, a correre sui tetti, a giocare a calcio, a farsi i dispetti, a bendarsi nel cortile, e la vita lenta viene resa più difficile da un sequestro fatto dalla zia con un blitz: niente telefonino fino a quando non vinci a scopa.

 

Il film scorre veloce, solo dialoghi, sguardi, volti, rughe, lacrime e la forza della noia costringe il ragazzo ad alzare il mento, a scoprire la vita analogica, anche con qualche bravata. E i fotogrammi di “Gioia mia” sono lì a ricordarci una lezione utile per il Natale: non serve vietare, quando si sta con i figli, quando si parla di tecnologia, di algoritmo. Serve educare, spiegare, mostrare l’altro mondo possibile, per integrarlo, renderlo complementare, con quello tecnologico. “Gioia mia” è lì a ricordarci che le regole sono importanti, che la scuola può fare molto, lo stato può dare un contributo, ma quello che può fare un papà, una mamma, una nonna, un nonno, una zia, uno zio vale più di un divieto. Blaise Pascal, celebre matematico e fisico francese, nel XVII secolo scrisse in un saggio, “Pensieri”, “che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: dal non saper restare tranquilli in una stanza”. Valeva ieri, valeva oggi. Vale per i nostri figli e per i nostri nipoti, e gioia mia, in fondo vale anche per noi.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.