Fedez e Chiara Ferragni - foto via Getty Images

Cambiamenti

I Ferragnez 3, un legal che fa arrivare qualche like perfino a Giurisprudenza

Ester Viola

Dall'Antitrust al Ddl Ferragni, dalle Holding alle quote societarie. La famiglia più famosa d'Italia ha risollevato il mestiere dell'avvocato. O almeno l'idea televisiva del lavoro. Noi, avvocati "veri", intanto, continuiamo a usare i brocardi latini

Tutto cominciò con gli accordi milionari di Chiara che caddero uno a uno come i birilli. Safilo, Coca Cola, Pigna. La gente parlava di risoluzioni contrattuali e ipotesi risarcitorie. La multa dell’Antitrust, le indagini della procura, la competenza territoriale, il disegno criminoso complessivo della truffa aggravata, il ddl Ferragni, con Chiara che si vantò (sic!) nelle storie di essere stata occasio legis. Occasione che ha prodotto la legge. Oggi usiamo anche il latino, cederemo alla cafoneria, semel in anno si può fare. Il latino è la lingua di noi avvocati. Si chiamano brocardi, ce li hanno fatti studiare all’università: sono frasi, mezzi aforismi di un rigo capaci di fissare la complessità in sinossi minima.

 

 

Passiamo al marito della coppia Amazon. La ribalta subito dopo è toccata alle società di Fedez. Le Holding, i genitori teste di legno (vulg. per prestanome), la nullatenenza di lui. Poi il sequestro giudiziario delle quote di Muschio Selvaggio, con varie rettifiche interpretative del provvedimento del giudice, e la clausola roulette russa o clausola del cowboy. Questioni statutarie faticosissime. Obscurum per obscuris. Spiegare una cosa oscura con cose ancora più oscure, ma il popolo voleva sapere, e tutti si sono informati su Google di quest’espediente giuridico per superare le fasi di stallo in società.

 

 

Non ci credevo, all’egemonia di questi due ricchi digitali. La bacchetta magica aveva poteri limitati, secondo me: potevano vendere rossetti e gazzose, basta così. Fino a quando ho visto sotto i miei occhi l’effetto Ferragnez su un titolo bassissimo in Borsa. Hanno resuscitato l’impossibile: il mio lavoro. Rendere quello dell’avvocato un mestiere avvincente, valevole delle mille pene che costa. Gli iscritti a Legge sono ai minimi, non si trova un praticante nemmeno pagato oro. Questo fino a un attimo fa. Prima che ci pensasse l’economia dei creator a far arrivare qualche like anche a Giurisprudenza.
 

I Ferragnez 3 è diventato un legal. Come uno di quei film americani che negli anni ’90 facevano fantasticare quattro sgallettate, tra cui chi scrive, che si potesse fare l’avvocato così, come Denzel Washington in “Philadelphia”, come Matt Damon in “The Rainmaker”. Sarebbe stato tutto facile e senza sfumature scoccianti. Una persona buona vittima del mondo cattivo, sceneggiatura brillante e dialoghi sarcastici, il giudice ha sempre una sola causa da discutere, la tua, per sette ore al giorno. Gli avversari escono sconfitti malamente. Alla fine trionfava la giustizia e trionfavo anche io, con una piega leggermente mossa, rigo di eye liner, capelli lunghi castano freddo e completi Dior. Dio, com’ero bella nei miei sogni d’avvocato.
 

L’hanno fatto diventare un lavoro molto telegenico, in realtà consiste perlopiù in: produzione e consegna di carte contenenti un ragionamento esatto secondo codice con discussioni brevissime e tecniche davanti a un Giudice. Quelle fantasie su vincere-o-costringere-l’avversario-a-perdere-con-sottili-strategie-davanti-a-un-pubblico-interessato, spesso facendo a pezzi un testimone (Tom Cruise contro il Colonnello Nathan Jessep), le notti insonni col trucco che regge passate col caffè lungo nel cartone da sei davanti a colonne di documenti con colleghi interessanti (i quali secondo la Grande leggenda americana troveranno pure le forze di spogliarti all’alba, dopo averti fatto scoprire i loro pettorali insospettabili sotto la loro camicia azzurra), l’idea geniale del protagonista che risolve il nodo di diritto cinque minuti dopo che tutti s’erano dati per vinti davanti alle scatole unte delle pizze farcite del delivery della sera prima e le lattine mezze svuotate – sono la favola professionale. Per spiegare meglio: adesso che faccio l’avvocato considero “Codice d’onore” come il “Pretty Woman” per studentesse di Legge.
 

Altro che gloria. Non ci sono buoni e non ci sono cattivi, si scopre in seguito. Ci sono solo questioni di soldi. Ora i magistrati quando possono ti intimano pure: udienza scritta cari signori. Tradotto vuol dire: trovatevi una soluzione per evitare la sentenza e levatevi davanti. Come passa le giornate un avvocato? Studia e scribacchia, da solo, ore e ore e ore. Un povero sorcio. Per non parlare del fatto che parliamo un’altra lingua. Ci costringono. Si naviga tra infiniti “si chiede che codesta eccellentissima corte” “preme ricordare” – ma cosa preme, dove preme? Perché? Ci si può ammalare di brutte parole? A volte credo di sì.
 

Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”.
 

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se “fiasco” “stufa” “carbone” fossero parole oscene, come se “andare” “trovare” “sapere” indicassero azioni turpi.
 

La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa. (I. Calvino, Una pietra sopra, Einaudi). Lo rileggo, Calvino, e dopo vent’anni di tesserino penso solo: beato te. Che sarà mai un “ho effettuato” al posto di “ho fatto”, paragonato a quello che scriviamo noi avvocati, che tocchiamo le cose vive e quelle diventano di pietra.