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La riflessione

Un nuovo modello culturale contro il mantra vuoto della lotta al patriarcato 

Lucetta Scaraffia

Mentre oggi prevale ovunque l’obbligo di distruggere il morente sistema patriarcale, nessuno si stia preoccupando di costruire un nuovo modello culturale

Nelle manifestazioni contro i femminicidi, le femministe italiane hanno dato finalmente segni di vita, e non possiamo che rallegrarcene. Ma certo non hanno mostrato di produrre pensiero, con analisi nuove e interessanti sulla situazione attuale. Un fatto è evidente: le ragazze che nei cortei ripetono incessantemente “morte al patriarcato” non sanno bene di cosa si tratti, né hanno idea di come sconfiggerlo. Non sanno che il patriarcato – sistema di potere del resto ormai in via di scomparsa – ha svolto per secoli una funzione essenziale nel garantire la continuità della cultura di un gruppo umano e l’identità della propria organizzazione, al di là dell’avvicendarsi dei suoi membri che nascono e muoiono. Tale imperativo di perpetuazione deve esistere se si vuole assicurare la continuità di una società, e se viene a mancare questo modello culturale bisogna necessariamente sostituirlo con un altro. Certo, quella del patriarcato era una continuità garantita dalla subordinazione dell’elemento biologico – cioè della procreazione – a quello culturale. E questo voleva dire la subordinazione delle donne agli uomini, detentori della cultura. È quindi un bene che stia scomparendo.
 

Oggi tutto è cambiato, nella nostra società le condizioni della riproduzione biologica e della evoluzione culturale sono trasformate da cima a fondo, togliendo alla disuguaglianza fra i sessi ogni tipo di ancoraggio legittimo. Ciò che serve, quindi, è capire come, in queste nuove condizioni, possiamo garantire al nostro gruppo di appartenenza l’attraversamento del tempo. Mi sembra però che nessuno si stia preoccupando di costruire un nuovo modello culturale, ma che prevalga solo l’obbligo di distruggere il morente patriarcato. Per avanzare in una direzione costruttiva non funziona la confusione imperante fra eterosessualità e famiglia patriarcale, e di conseguenza l’idea di risolvere ogni problema ponendo fine alla “dominazione eterosessuale”, ma serve piuttosto una seria analisi su come costruire un nuovo modello di società di diversi che non preveda il dominio di uno sull’altro. E questa analisi può partire non solo dal riconoscimento dei meriti di ambedue le parti, ma anche dalla presa d’atto che nessuna di esse ha un significato positivo o negativo in sé, ma solo nell’interazione con l’altra.

Due libri usciti da poco possono aiutare in questo nuovo percorso: due libri scritti da due femministe, una filosofa molto attenta alla storia, Adriana Cavarero, e una giovane esperta di biologia, Laura Tripaldi. Cavarero in Donne che allattano cuccioli di lupo analizza il grande rimosso del femminismo, la maternità, e la intende come forza, come potenza. Ci vuole ricordare che l’esperienza della maternità è di straordinaria importanza perché fa vivere alle donne la consapevolezza di essere organismi di una materia vivente più grande e generale. Cioè permette alla donna “l’affacciarsi sul processo impersonale della vita infinita che nel suo corpo si compie”. Si tratta di un’esperienza che all’altro sesso non è possibile esperire e che permette di capire una verità essenziale della condizione umana, cioè l’essere-per-sempre della natura in confronto con l’essere-per-un-tempo-limitato dei viventi. La grandezza e l’importanza di questa esperienza è stata sempre sottovalutata dagli uomini, che hanno cercato di controllare la maternità, e per farlo hanno dato origine al sistema patriarcale. Ma paradossalmente – ricorda Cavarero – la maternità è stata svilita dalle stesse femministe: per Simone de Beauvoir il mondo biologico della vita è considerato il regno della necessità, ciclica e ripetitiva, al quale la donna deve sfuggire per raggiungere il regno opposto della libertà, cioè il regno della cultura. Cavarero invece combatte il veto femminista di pensare alla maternità in modo positivo, e osserva come questa concezione negativa sia stata ripresa in pieno dall’ideologia del gender, che arriva a sostituire al termine “donna” quello di “persona con utero”. La cecità sul valore positivo della maternità fa sì che le femministe non si rendano conto quanto, di fatto, questa nuova definizione confermi la superiorità dell’identità maschile, che rimane invariata – quindi confermata – e apra la strada alla riduzione delle madri surrogate a un utero. Il libro di Cavarero è un invito alla rivalutazione, nella vita e nel pensiero, della maternità, aprendo così nuove possibilità per pensare a una società futura.


Che cosa sia una donna è la domanda che si pone anche Tripaldi in Gender tech, per rispondere che, nella confusione fra una definizione solo biologica e una che fa dipendere tutto dai condizionamenti culturali svincolati dal corpo, “una donna è chiunque dichiari di esserlo”. Quindi, di nuovo, si torna a un accantonamento della maternità.Tripaldi parte dalla questione sollevata nel 1970 da Shulamith Firestone nel suo celeberrimo La dialettica dei sessi: se l’oppressione della donna nasce dalla sua condizione biologica, cioè dalla maternità, la moderna tecnologia, che ha la capacità di trasformare la natura, la potrà liberare. Invece questo non è successo. Dopo una disamina attenta delle tecnologie riproduttive applicate alle donne, Tripaldi nega questo lieto fine. La sua conclusione è che anche la tecnologia è prodotta dalla cultura patriarcale, e quindi esercita violenza sul corpo femminile, a cominciare dallo speculum, strumento introdotto nella visita ginecologica a metà Ottocento. I dispositivi destinati al corpo femminile sono sempre ambigui, apparentemente portatori di libertà, ma al tempo stesso forme di sorveglianza e di dominio.Perfino la miracolosa pillola anticoncezionale, quella che ha regalato alle donne la libertà sessuale, nasconde molti aspetti critici. In primo luogo è stata sperimentata su inconsapevoli donne portoricane, sfruttate grazie al dominio di tipo coloniale statunitense, a riprova che il consenso informato delle donne a un trattamento farmacologico invasivo non è ritenuto davvero necessario. Secondo Tripaldi la pillola anticoncezionale, presentata come una panacea perché regolarizza il ciclo e riduce quindi disturbi dolorosi, di fatto cancellando la sindrome mestruale, trasforma profondamente il corpo. Le mestruazioni sono finte, prodotte da un placebo, e nella realtà quelle vere vengono cancellate, ma alle donne non lo si dice, così come non le si rende consapevoli che si tratta del primo farmaco che viene prescritto senza malattia. La pillola è così presentata come una soluzione magica – guarirebbe anche dall’acne – da una autorità scientifica paternalista che si fonda sulla infantilizzazione delle donne. Il controllo patriarcale della riproduzione si configura sempre come un controllo dei mezzi di produzione del sapere.

Allo stesso modo i più recenti mezzi di controllo delle nascite, le app che costruiscono calendari personali atti a evidenziare i momenti fertili, diventano occasione di produzione di dati utilizzati per bombardare le donne di offerte pubblicitarie costruite su questo loro percorso intimo personale, per condizionarle dalla sessualità all’abbigliamento, dall’alimentazione alla cosmetica. Anche la scoperta dell’ecografia – avvenuta grazie a tecnologie militari, i sonar – accanto all’indubbio utilizzo positivo per conoscere le condizioni del feto, diventa anche mezzo per contrastare e rendere più doloroso l’aborto. Riporre quindi speranze di liberazione nella tecnologia, secondo Tripaldi, è sbagliato. Ma, smascherando la visione tecnologica del corpo femminile, rivelando la natura patriarcale di questa visione, la soluzione a cui arriva l’autrice è che tutto è costruzione culturale, e non si può parlare dei corpi nei termini di natura e di realtà. Il suo discorso critico è molto interessante ma, non volendo affrontare il tema della maternità se non come negazione della possibilità di concepimento o come libertà di aborto, Tripaldi sembra non accorgersi che la gravidanza e il parto sono lì, reali e naturali, e costituiscono un’esperienza che solo le donne possono fare, ribadendo così la loro esistenza. Non sarebbe meglio partire da lì per andare avanti?

 

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