l murale dedicato a Giulia Cecchettin realizzato a Milano dell'artista Fabio Ingrassia (Ansa) 

Il mistero del male

Il delitto di Giulia Cecchettin è figlio di una società incapace di custodire relazioni buone

Alberto Frigerio

Tra le molteplici cause si distingue il propagarsi di una visione dialettica del rapporto uomo/donna, che sarebbe inevitabilmente conflittuale e andrebbe superato nell’indistinzione di genere. In realtà, maschile e femminile declinano la comune umanità secondo flessioni differenti

L’efferato delitto di Giulia Cecchettin attesta la tragicità del male che ammorba l’esistenza, di cui tutti in varia misura siamo responsabili (Gn 4,7), e sprona a intendere il senso dell’agire giusto nei confronti di condotte inique, che è tale in quanto volto a consentire al reo di affrancarsi dal male e volgere al bene, se possibile riconciliandosi con la vittima o i familiari, come auspica il paradigma della giustizia riparativa, intento a ricostruire il legame sociale incrinato dall’azione criminosa. Fare giustizia si qualifica nel vincere il rancore e promuovere percorsi di cambiamento, consci del male di cui ciascuno è capace. E’ quanto insegna A. Solženicyn, che in Arcipelago Gulag denuncia le atrocità del sistema comunista sovietico, di cui fu vittima, senza però alcun livore, conscio che lui stesso avrebbe potuto essere carnefice e che il male non soggioga il reo in modo irreparabile. La linea che separa il bene dal male è presente in ognuno e si sposta a seconda della postura assunta dalla libertà: “Se la mia vita avesse preso una piega diversa, non sarei diventato boia anch’io? E’ una domanda paurosa se si vuole rispondere onestamente… Se fosse così semplice! Se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno… Nel corso della vita di un cuore quella linea si sposta, ora sospinta dal gioioso male, ora liberando il posto per il bene che fiorisce. Il medesimo uomo, in età differenti, in differenti situazioni, ora è vicino al diavolo, ora al santo… Dal bene al male è un passo solo, dice un proverbio russo. Dunque anche dal male al bene”. Compito del fare giustizia è consentire al reo, con adeguati percorsi di espiazione e riconciliazione, di compiere il passo dal male al bene.

 

Fare giustizia comporta la rinuncia alla ritorsione (malum pro malo), ovviando all’idea fallace per cui il patimento altrui compenserebbe il torto subito, ed esclude l’identificazione del medesimo come estraneo o nemico, agendo affinché si ravveda. Anche perché il colpevole non è esterno ma interno alla società, ne è membro e in parte prodotto, come segnala il dogma del peccato originale, secondo cui la caduta di Adamo comporta la partecipazione di tutti a relazioni turbate. In proposito è stato evocato come humus dell’atroce delitto il sistema patriarcale, che indica l’ordine simbolico e l’organizzazione sociale basati sulla distinzione gerarchica e sul dominio maschile sul femminile. La diagnosi risulta però imprecisa, non solo perché da decenni è in corso il ribilanciamento delle mansioni svolte da uomini e donne, a lungo irrigidite nella ripartizione tra sfera pubblica e privata, talora con flessioni palesemente discriminatorie, come denunciato dal femminismo, ma anche perché il padre ha cessato da tempo di essere dominus per divenire anzi “l’assente inaccettabile” (C. Risé), come segnalò J. Lacan nel fatidico ’68 parlando di “evaporazione del padre”.

Più che del patriarcato, finalmente tramontato (ciò non significa che non si debba lavorare per valorizzare appieno la donna, promuovendo politiche che le consentano di coniugare impegno domestico e lavorativo e favorendo la partecipazione solerte degli uomini alle attività familiari), Filippo Turetta è espressione di una società incapace di custodire relazioni buone, anzitutto in campo affettivo, come comprova l’incremento di episodi violenti, nella forma del dominio di lui e della seduzione di lei (Gn 3,16). Tra le molteplici cause si distingue il propagarsi di una visione dialettica del rapporto uomo/donna, che sarebbe inevitabilmente conflittuale e andrebbe superato nell’indistinzione di genere. In realtà, maschile e femminile declinano la comune umanità secondo flessioni differenti (Gn 1,27), e questo dischiude il compito di promuovere un’etica della differenza, intenta a fuoriuscire dall’unilateralità narcisistica del proprio inclinare imposto come universale contro l’altro e assumere un atteggiamento di riconoscimento grato con e per l’altro. Il binomio uomo/donna non si configura ineluttabilmente nella prospettiva dell’estraneità, rivalità e abuso, ma può assumere la conformazione della mutua rivelazione, in cui lui e lei si comprendono in relazione. A tal fine, si tratta di superare l’approccio informativo/preventivo, assai diffuso nei corsi di educazione affettiva, intento a fornire informazioni che consentano di gestire pulsioni ed emozioni prevenendo esiti indesiderati come la gravidanza e la trasmissione di malattie, e promuovere l’amore integrale, che sorge dall’attrazione e simpatia che si sente per l’altro e si realizza nel compiere il bene dell’altro. Come rileva l’arcivescovo di Milano M. Delpini nella “Proposta Pastorale 2023/2024”, per i cristiani questo si concreta nel testimoniare la bontà dell’amore fedele e fecondo a cui il Vangelo abilita, che compie l’anelito ad amare ed essere amati che abita l’animo umano.

Alberto Frigerio, docente di teologia morale

Di più su questi argomenti: