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parlare di prevenzione

Come la morte di Giulia Cecchettin cambia il discorso pubblico sul femminicidio

Alessandro Barbano

Negli ultimi decenni si è assistito a una proliferazione delle politiche penali di contrasto alla violenza di genere senza precedenti, ma il numero dei femminicidi è rimasto sostanzialmente stabile. L’unica prevenzione possibile è l’educazione sentimentale

La morte di Giulia segna un punto di svolta nel discorso pubblico sul femminicidio. Per la prima volta si conviene sul fatto che l’obiettivo di annientamento della vittima sopravanza, nella mente dei maschi assassini, qualunque valutazione sulle conseguenze del gesto. La dinamica di questa tragedia, del resto, lo conferma. La premeditazione, qualora provata, e la stessa fuga non vogliono dire che Filippo abbia mai realisticamente pensato di farla franca, o che abbia sottovalutato ciò che lo attende. Un giovane di ventidue anni ben istruito, che vive in un contesto sociale evoluto, sa bene a che cosa va incontro. Se uccide lo stesso, lo fa perché il suo bisogno di punire è più forte di qualunque controllo delle emozioni distruttive e di qualunque convenienza razionale. Ciò vale a dimostrare che la sanzione penale non ha un effetto deterrente su un fenomeno che ha un’incidenza relativa crescente nella casistica omicidiaria del nostro Paese. Perché negli ultimi tre decenni i delitti attribuibili alla criminalità si sono fortemente ridotti in valore assoluto, mentre i femminicidi sono rimasti sostanzialmente stabili. Ma ciò vale anche a smentire l’efficacia delle politiche penali di contrasto perseguite fin qui, che pure hanno conosciuto una proliferazione normativa senza precedenti.

Nel 2009 è stata ampliata la definizione di violenza sessuale, nel 2013 stato istituto il reato di “femminicidio”, nel 2019 è stato varato un codice rosso con l’obiettivo di dare una protezione più rapida e più efficace alle vittime di violenza. In tutti questi tre passaggi legislativi sono aumentate le pene e gli strumenti interdittivi, senza però conseguire risultati apprezzabili. Queste leggi sono state una risposta reattiva della politica all’indignazione dell’opinione pubblica. Ma è mancata un’analisi scientifica del fenomeno, a partire dalla sua geografia psicosociale. La maggior parte dei femminicidi sono collocati in tre contesti di cambiamento e di crisi: la famiglia italiana durante o dopo la separazione e il divorzio; la famiglia immigrata che tenta una difficile risocializzazione in Italia; le relazioni tra giovani in contesti provinciali o comunque culturalmente chiusi. Nessuna risposta penale o interdittiva, nella sua irrogazione generica, può incidere su una fenomenologia insieme così complessa e così specifica. Al netto di qualche appello populista che ancora invoca di gettare la chiave – lo ha fatto in queste ore il segretario della Lega, Matteo Salvini -, e al netto di un prevedibile ulteriore giro di vite del governo, per la prima volta si riconosce che la severità penale non è la soluzione per impedire che altre donne abbiano la sorte di Giulia. La parola che si ripete come un mantra in tv e sui media è ora prevenzione. Ma non meno equivoco è il modo in cui questo strumento è declinato nel dibattito pubblico.


Che vuol dire in concreto prevenire un femminicidio? Si va diffondendo la credenza che esistano comportamenti sintomatici in grado di segnalare in anticipo la tendenza di un soggetto a trasformarsi in un killer feroce. E che questi comportamenti possano essere individuati alla prima comparsa e far scattare attorno alla persona che li esprime una cornice di allarme e di isolamento, per impedire che la sua potenzialità aggressiva si traduca in violenza. Si fa interprete di una simile visione anche il ministro della giustizia, Carlo Nordio, che in un’intervista al Corriere della Sera annuncia la diffusione di un opuscolo da diffondere a scuola, nei posti di lavoro e sui social per segnalare i cosiddetti “atteggiamenti spia, sintomi di un possibile aggravamento di violenza”. E qui il guardasigilli fa un infelice parallelo con la mafia, fingendo di ignorare il danno che la legislazione speciale ha prodotto alla democrazia, ibridando del suo eccezionalismo il diritto penale liberale. “Come per la mafia esistono i reati spia, così nei femminicidi ci sono gli atteggiamenti spia”, dice. E volendo approfondire chiarisce che “ciò che ieri poteva sembrare galanteria, insistenza, messaggi social oggi può essere invece la spia di una futura violenza”. Purtroppo una semplificazione rozza di sta impossessando del sentire comune e non risparmia neanche la classe dirigente. In tv si avvicendano testimonial che insegnano a riconoscere il bruto da un campionario sconfinato di forme della gelosia. E la voce dei pochi veri esperti, che pure avrebbero titolo a parlare sulla vicenda, finisce coperta dal rumore di fondo dell’emergenzialismo. 


Il rimedio di allenare le donne e la società a isolare i cosiddetti comportamenti normopatici è illusorio e controproducente. Anzitutto perché – come spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista, su “la Repubblica” - “ci sono parti nascoste, a volte dissociate, che a un occhio allenato o attento sono più riconoscibili, ma che in alcuni casi non lasciano prevedere, anche da un punto di vista clinico, la possibilità di azioni estreme”. Vuol dire che lo psicologo che aveva in terapia il mostro di Foligno non era un incompetente, ma semplicemente che “non tutte le parti normopatiche di un individuo sono visibili e non sempre la loro evoluzione è prevedibile”. Una cultura dell’allarme diffuso non farebbe che rendere le relazioni affettive più problematiche, trasformando l’analfabetismo affettivo del nostro tempo in una giungla del sospetto e facendo più pericolosi i cosiddetti soggetti rischio. Ma se questa soluzione spiccia si fa strada, è perché risponde alla tentazione di rimuovere il male dal nostro mondo per confinarlo in un’alterità invisibile, che sia quella del potenziale bruto e del carcere a vita, dove vorremmo gettarlo per non vederlo mai più.


Questa ricetta non funziona. Non è l’esclusione o una relazione vissuta in allarme sistematico che possono scongiurare il femminicidio, ma il loro contrario. L’unica prevenzione possibile è l’educazione sentimentale. Educazione a stare insieme, a litigare, a lasciarsi, a sostenere il rifiuto dell’altro. Si può imparare a scuola. Ma non con un manuale di sopravvivenza sessuale delle giovani marmotte, come quello annunciato dal guardasigilli. E non con una spruzzatina di euro per qualche corso pomeridiano con lo psicologico, a cui finiscono per partecipare soprattutto coloro che ne hanno meno bisogno. Bisogna introdurre la conoscenza di se stessi e della capacità di relazione nelle discipline curricolari, dalla scuola materna al liceo. E soprattutto bisogna rinunciare a fare di quest’investimento una leva ideologica per cambiare la società in un senso tradizionalista o piuttosto progressista. L’Italia negli ultimi vent’anni ha cambiato i suoi costumi con una velocità sorprendente, che ha messo in crisi i ruoli e le relazioni di genere, e nel frattempo ha integrato popoli e culture per le quali l’emancipazione rappresenta un doppio salto mortale. Immaginare di governare questi processi con una cultura dell’allarme vuol dire indebolire le connessioni civili di cui invece c’è più bisogno. Purtroppo ci sono molti segnali che questo stia accadendo.           

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