Foto Epa, via Ansa

Porno e violenza, le relazioni pericolose

Matteo Marchesini

Un’esperienza così pervasiva che per molti adolescenti è l’unica chiave di accesso alla sfera sessuale. La solitudine davanti allo schermo, l’apatia e la violenza come suo rovescio inevitabile. Che fare con la fantasia, che non è educata

Ci sono tre luoghi infernali in cui può portare una discussione su porno e violenza: l’editoriale “signora mia”; la battuta brillante di chi, sfottendo l’editoriale, si illude di liquidare la questione; e un cavilloso commento da cultural studies che aliena dall’esperienza concreta e dà per scontato “il porno” come un settore della pubblica amministrazione, cioè accetta il fenomeno senza discuterlo alla radice. Merita quindi di essere segnalato uno dei rari interventi, tra i tanti suscitati dagli stupri di Caivano e di Palermo, in grado di sfuggire a queste vie lastricate d’intenzioni perbeniste: quello di Federica D’Alessio, giornalista di MicroMega, la cui polemica femminista non ha nulla di genericamente virtuistico. In un post su Facebook, D’Alessio ha criticato gli apologeti del porno perché ignorano “la violenza strutturale alla base stessa dell’industria dei contenuti pornografici, parente stretta del revenge porn, della pedofilia e dello stupro, e l’esistenza dilagante della pornopatia fra gli adolescenti e fra gli adulti”. Come la ludopatia, ha osservato la giornalista, “la pornopatia non agisce sul terreno morale (…) ma su quello cognitivo, distruggendo qualsiasi possibilità di relazionarsi alle persone in modo sano. Proprio come nel mondo del gaming, il concetto di trasgressione è stato superato da un pezzo, e ciò con cui ci si confronta non è il divieto o la proibizione bensì un’offerta dilagante di contenuti con un tasso di violenza sempre più incontrollato, che genera dipendenza, assuefazione e alienazione”.

Questa diagnosi è stata poi approfondita in un pezzo uscito su MicroMega, in cui D’Alessio cita un rapporto “sulla pornografia come fenomeno sociale e come industria economica” presentato al Senato francese: rapporto che dimostra come “la quasi totalità dei contenuti pornografici consiste in una forma di abuso e violenza”, e come il sistema del “porno amatoriale” è spesso basato sugli stessi meccanismi della prostituzione, con in più l’impossibilità di ritirare i video dal web e quindi, per la vittima, con un “fine pena mai”. Il porno è divenuto così pervasivo, ribadisce portando altri dati, che per molti adolescenti risulta “l’unica chiave di accesso alla sfera sessuale”, con effetti di alterazione del senso della realtà e conseguente sparizione di un senso del limite nel rapporto con l’altro.

Di questo discorso mi sembrano importanti due punti: l’accento posto sull’elemento cognitivo, ovvero su un contesto che abitua a proiettare le fantasticherie private nel mondo comune; e l’insistenza politica sulla violenza agita, prima ancora che nelle immagini, nella produzione del porno – ossia su un argomento che i suoi apologeti eludono per il terrore di essere considerati moralisti. Del resto questo silenzio nasconde un imbarazzo che riguarda la definizione stessa di prostituzione: perché da un lato ci si vuol mostrare laici accettandola, s’intende in una ipotetica società depurata dallo sfruttamento; ma dall’altro lato, se qualcuno la evoca per nominare delle pratiche tipiche di un ambiente più borghese o più ovattato rispetto alla strada e ai bordelli (vedi OnlyFans), ci s’indigna secondo la tradizionale percezione del termine come insulto. I due motivi del discorso confluiscono dove D’Alessio sgombra il campo dalla falsa contrapposizione di “proibito” e “consentito”, per rimettere al centro la questione del potere. Rispetto a mezzo secolo fa, ovvero al tempo di tanti sogni contraddittori ma anche libertari, siamo infatti in una situazione completamente diversa, dato che trionfa la privatizzazione totale delle esperienze attraverso la rete, col silenzio sui meccanismi di dominio e la virtualizzazione capillare dei contatti, cui segue spesso un’apatia della quale la violenza sembra il rovescio inevitabile
Se riguardo alla sopraffazione che plasma la filiera produttiva gli apologeti del porno rispondono in modo vago, rispondono però con logica stringente, si ribatterà, almeno sul rapporto tra consumo del porno e violenza. Un rapporto pressoché inesistente, sostengono, e inventato da chi ha un’idea scioccamente meccanicistica dell’esperienza. Vedere non è agire, ribadiscono; spesso, e magari proprio per le donne, è anzi conoscere e conoscersi meglio, dopo secoli di un silenzio ben altrimenti oppressivo. Nel che c’è senz’altro qualcosa di vero. Ma le cose non sono così semplici. Risposte del genere schivano infatti la dimensione cognitiva evocata da D’Alessio; la quale però, sospetto, può essere compresa solo se si allarga lo sguardo dal settore pornografico a un più generale modo di vivere.

Oggi tutti, dal risveglio al sonno, ci muoviamo in una specie di incubo leggero, fasciati da una sequenza di immagini che occupano ogni spiraglio. Immagini più o meno euforizzanti, o deprimenti, ma comunque ipnotiche, e destinate a rendere percettivamente fantasmatica quanto concretamente alienata la nostra esistenza. Il tema non è nuovo: nel secolo scorso, all’avvento del cinema e poi della tv, non poche cavie dotate di spirito critico (da Kafka a Zolla) si erano interrogate sulle conseguenze della nostra abitudine ad abitare tra gli ectoplasmi, e a diventarlo gli uni per gli altri, in un ariostesco castello di Atlante che a poco a poco si mangiava il mondo fuori. Sotto questo aspetto tutti gli choc tecnologico-mediatici, dal film al web, ci hanno indotto a dimenticare che l’irrealtà delle immagini tecnicamente riproducibili e totalizzanti non concede il distacco delle altre arti, né prevede una vera catarsi, ma provoca la dipendenza di una droga. In un certo senso, ogni film è un film porno. La fuga d’immagini impone uno stato da sonnambuli da cui ci si risveglia amareggiati o eccitati, come se ci avesse trasmesso il suo indeterminato impulso cinetico – un impulso che esige di prolungarsi e non ci lascia invece mai sostare, meditare, misurare le distanze, ossia stabilire rapporti con un’alterità.

L’occhio di chi è così drogato oscilla di continuo intorno alle sequenze, vorace e distratto, senza nulla cogliere e nulla abbandonare. Ma c’è una bella differenza se ciò avviene solo in alcuni luoghi, per un certo tempo, oppure in ogni istante dappertutto. Da vent’anni, il castello di Atlante coincide con una vasta superficie planetaria. Foto e video ritoccati ci raggiungono ovunque, da pc e telefoni, così che sottrarsi all’ipnosi diventa difficilissimo – come ognuno sa bene facendo il bilancio della giornata, non di rado condito da una nausea che induce a sfuggirla tornando paradossalmente allo schermo, o che in alternativa precipita nel mondo “reale” con un distruttivo acting out. In questo sonnambulismo pensieri e sentimenti si sciolgono insieme alla fisicità del mondo. Nulla ha più volume; e la capacità di immedesimarsi negli altri si affievolisce. Resta una fantasticheria che è il contrario dell’immaginazione, perché piega tutto a desideri, impulsi, deliri d’onnipotenza che non conoscono limiti. Tra la fantasia e l’atto, un clic elimina subito l’ombra, per riprodurla ingigantita e virtualmente oggettivata sullo schermo. Irreale e materialissimo è insomma il groviglio di pulsioni, sentimenti e stati d’animo che cresce nel web e che poi si scarica – realissimamente – all’interno delle relazioni sociali o intime.

E’ una condizione che somiglia molto al “male” come lo intendeva Simone Weil: un sogno che colma e deforma il vuoto dei rapporti, la mistificazione di chi non sopporta di abitare la distanza che sola consente l’incontro con l’altro da sé. A questa convinzione, però, la pensatrice francese ne lega una ugualmente importante. Ci sono, dice, verità contraddittorie; e bisogna guardarsi dal conciliarle in un sistema, unendole con uno stucco ideologico di cattiva qualità. Ora, ciò che sostiene Federica D’Alessio è vero; eppure, nello stesso tempo, avverto un nocciolo di verità altrettanto irrefutabile in un’opinione opposta alla sua ed espressa da un’altra femminista, Roberta Tatafiore. La Tatafiore è morta parecchi anni fa, perciò non ha potuto esprimersi sullo stato attuale delle cose; ma forse avrebbe continuato a considerarlo sotto una luce diversa. In una difesa della pornografia di fine Novecento, questa scrittrice intelligentissima l’ha definita “piacevole” perché “oscena” ma soprattutto “degradante”: aggettivo con cui reagiva alla diffamazione intellettuale, tipicamente estetizzante e “progressista”, di chi per una volgare fobia della volgarità rifiuta di contemplare l’ipotesi che “qualcosa di osceno, degradante (…) sia piacevole”. Questa affermazione problematizza sia il discorso di D’Alessio sia quello dei suoi avversari, gli esaltatori delle magnifiche sorti del porno, i quali non si sa mai se stiano descrivendo sul serio un’esperienza o non siano interessati piuttosto a una mera catalogazione accademica, che nasconde la paura di provare qualcosa d’incompatibile con la propria visione del mondo. Ed ecco il punto. Il convitato di pietra del dibattito è ciò che non ha nome, ciò che è per natura antisociale, nel sesso e in altro – ad esempio nella letteratura, che oggi quasi tutti vogliono portatrice di un messaggio edificante, cioè privo dell’ambiguità della buona arte come della vita umana. Gli apologeti del porno credono di poter domare l’angoscia del senza nome con l’incasellamento capillare dei desideri. E’, in fondo, la versione 2.0 di un processo già satireggiato ampiamente nel tardo Novecento, ad esempio nella memorabile clinica sessuale del dottor Zuckerbrot del film “Buddy Buddy”. Mutati i termini e le scenografie, oggi quella clinica è un po’ dappertutto. Da una parte si articola nella meticolosa catalogazione di orientamenti e gusti; dall’altra in una tronfia retorica sull’effetto “liberatorio” di atteggiamenti che un tempo si sarebbero detti piccolo-borghesi. Si vedano le comiche arringhe sull’uso “sessuopolitico” di qualche pratica erotica. In un recente studio sul porno, mi è capitato persino d’imbattermi nel serioso invito a “rileggere il pompino in forma di empowerment”. Crescono ovunque i pornopreti di cui parla D’Alessio: quelli che magari, svelando la “soggezione di genere” nel porno, vogliono produrne a tavolino uno “femminista” – qualunque cosa significhi. Non siamo più ai vasti sogni di Reich o di Marcuse ma alle angustie di Homais, il farmacista di Flaubert, che oggi vende dildo con il contegno del buon genitore e dell’impeccabile professionista.

Questi chierici pseudoprogressisti e perbenisti non si accorgono che la censura agisce in loro tanto più forte quanto meno è riconosciuta. La loro visione del porno, anche di quello in apparenza più eccentrico, implica infatti una giustificazione ideologica, e non sopporta la semplice resa a un piacere magari “degradante”. Ma un analogo pericolo rimozionale riguarda il discorso opposto, di radicale rifiuto del porno, attraverso cui una sacrosanta battaglia femminista rischia di approdare a un integralismo che non riguarda la pornografia in sé, ma il tentativo di far coincidere “vita diurna” e “vita notturna”. Il fatto è che la sessualità non può diventare senza residui una relazione “costruttiva”, che sa rispondere alla luce del sole di sé stessa; e non per motivi di contingente pathos storico della “trasgressione”, ma per una tendenza alla profanazione della vita diurna, e per un’antistorica coazione a ripetere, che non si possono eliminare senza eliminare l’essere umano. Il comprensibile allarme per le forme in cui si presenta la frattura, certo non inedita, tra sessualità e affettività, non deve cioè mai indurre a dimenticare che la zona d’ombra è fisiologica; e che se si prova a ridurla a qualcosa di socialmente accettabile, si ingigantisce un rimosso che riaffiorerà con un volto mostruoso. Di più: la zona d’ombra garantisce l’accoglienza (l’inclusione…) alle parti antisociali dell’esistenza umana che perfino la società più democratica deve sacrificare per esistere; a quelle parti, precisiamolo, che nell’identità di alcune persone appaiono così decisive da trasformare in un istante queste persone in “devianti”, rifiutati, reietti. Dimenticare che ci sono più cose nel corpo e nella mente umani di quante possa contenerne qualunque filosofia, anche la più emancipatrice, porta a esiti inquietanti e ridicoli: l’ortopedia della lingua, la politicizzazione del porno, il tentativo di tacciare d’insensibilità sociale alcune pulsioni o desideri profondi e umanissimi.

In sintesi: non è vero che il nostro intero vissuto cambia secondo lo stesso processo con cui cambiano i nostri dibattiti civili o le nostre idee. Oggi si sta diffondendo questa convinzione, con conseguenze potenzialmente – attualmente – fondamentaliste e violente. Non si tratta di porno in sé: il discorso vale, lo si è detto, anche per le verità inconciliabili della letteratura. O vale, nella letteratura e nella vita quotidiana, per l’umorismo. Si cerca ad esempio di far credere che l’immaginazione, o il riso, riferiti a certi oggetti o situazioni, implichino una determinata concezione del mondo, magari discriminatoria – mentre avere, che so, fantasie erotiche di riduzione estrema di una donna a oggetto non equivale affatto a essere misogini. Oppure si finge che di fronte a temi delicati (minoranze, ecc.) le brave persone ridano unicamente “di secondo grado, degli stereotipi” – e così si tradisce la natura profonda quanto antintellettualistica del fenomeno comico.

Come nota un mio amico intelligentissimo, siamo tornati a un’epoca pre-freudiana: stiamo cioè sinistramente abolendo ogni differenza tra il giudizio sull’espressione di un desiderio e quello che si dà su un’azione. Nei pomeriggi di metà anni Novanta, sulla Rai, andava in onda una delle ultime storiche trasmissioni “per adolescenti”: studio tipo aula magna, ragazze e ragazzi seduti su gradoni da palestra, e sotto in piedi il conduttore La Porta in jeans e scarpe da ginnastica. In una puntata si parlò di erotismo, e un ragazzo dichiarò che gli era successo di eccitarsi immaginando di stuprare una donna. Ci fu un attimo di silenzio, ricordo; ma poi si avviò un dibattito civile, e mi verrebbe da dire normale. Quel ragazzo aveva condiviso una fantasia “notturna” comune a tanti uomini (e donne); gli altri ora ragionavano pacatamente sui suoi rapporti con la vita “diurna”. Nel 2023, quel dibattito sarebbe impossibile. Un passo avanti? No, dieci indietro. L’impossibilità dimostra infatti la nostra rimozione della zona d’ombra, che non ha più modo di essere espressa a parole, e quindi rischia di produrre proprio la temuta violenza. Far credere che esista un “immaginario sessuale migliore” che avrebbe la stessa forma della vita “diurna” e della società “democratica”, o magari di qualche scialba utopia rivoluzionaria o pseudoscientifica, significa preparare un mondo ancora più oppressivo. Che del resto è già qui. Basta considerare la crescente egemonia dei gerghi psichiatrico-giudiziari quando si parla di relazioni, e il tentativo di ricondurre ogni discussione a riguardo alla patologia o al crimine. Sia chiaro: non c’è dubbio sul fatto che il nostro giornalismo racconti in modo spesso indegno la violenza sulle donne, né che a volte tenda a identificarsi emotivamente con l’aggressore. Ma non tutte le relazioni sono riconducibili a questa dinamica. E anche là dove la si sta affrontando, bisogna mantenere ben distinti i tipi di discorso. Nel giro di un anno ho sentito almeno cinque narratori che presentando il proprio romanzo si sono affrettati a precisare: “Le azioni del personaggio violento di cui parlo sono analizzate nelle loro cause e conseguenze, ma da me assolutamente mai giustificate”. Se questo non è già accettare di comparire davanti a un tribunale di gerarchi o commissari del popolo, non so davvero cos’altro possa significare. Lo scrupolo linguistico che devono rispettare i mezzi d’informazione non può riversarsi sul dibattito culturale e sulla letteratura, perché lì non è più scrupolo ma mistificazione. Un romanzo, un saggio, una poesia, una pièce, un film o una serie possono raccontare anche l’amore tormentato e deforme di un manipolatore o di un omicida, chiedendoci di metterci nei suoi panni. Se si rifiuta questa elementare esigenza, si torna a mettere in quarantena Lolita. E a proposito di pedofilia: occuparsi dei rapporti tra un adolescente e un adulto insistendo sullo squilibrio di potere è giusto, così come lo è legiferare a tutela dei minorenni di qualunque età. Se però, trasferendo rozzamente le esigenze sociali e giudiziarie sull’analisi critica, ci si abitua a definire con lo stesso termine la violenza su un bambino di cinque anni e la relazione opaca tra una quattordicenne e un cinquantenne (vedi il caso Matzneff), si guadagna solo in menzogna.

Il riassunto di quanto cerco di dire sta forse tutto in una gag di Louis C.K. Dopo uno spettacolo, una fan raggiunge Louis in camerino; si baciano lungamente, ma quando lui comincia a palparla lei si sottrae; giorni dopo si rivedono, e la donna gli chiede perché mai quella sera si fosse fermato; lui, stupefatto, le ricorda il suo rifiuto; e lei allora: “Ma io volevo che tu mi prendessi con la forza”; “e perché non me l’hai detto?” ribatte Louis; “se te lo dicevo, mica c’era gusto”, spiega la donna; al che l’attore apre le braccia: “Cosa? dovevo rischiare la galera per quella merda che hai in testa?”.

Non c’è niente da fare: la notte non è riducibile al giorno. La fantasia non è educata, e nemmeno legale. Tra la scelta di mantenersi in contatto con le sue immagini, ossia di salvaguardare dei luoghi anche pubblici in cui restano rappresentabili, e la scelta di rimuoverle dal dibattito, passa una differenza che produce conseguenze enormi. Nel secondo caso, sia che proibiamo sia che cataloghiamo, rischiamo di allargare quello iato tra le convenzioni e le esperienze senza nome in cui cresce la burocrazia come violenza, e la violenza burocratizzata. 

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