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Lui mi molestò, io non parlai. Una storia

Berta Isla

Ero una ragazzina di 12 anni e quell’uomo era un amico di famiglia. Il volto cancellato dalla memoria, “ammazzami o racconto tutto”, i sensi di colpa, il tempo passato a cercare un perché. Ma c’è anche un lieto fine

La storia che voglio raccontare ha un inizio orribile, e un lieto fine. L’inizio orribile è che a 12 anni sono stata molestata dal padre di quella che allora era la mia migliore amica, un signore di oltre sessant’anni, praticamente di famiglia, un uomo che mi aveva cresciuta e di cui mi sono fidata ciecamente. Il lieto fine sta nel fatto che le molestie non sono andate oltre, non sono diventate stupro – e questo è solo frutto del caso e della fortuna – cosicché a oggi, a quasi quarant’anni, con un marito e un figlio in arrivo, posso dire di stare bene, di non avere ferite aperte. Nessun trauma mi abita, nessuna rottura irreparabile, non ho paura del sesso né mai ne ho avuta dell’altro sesso. 

Non provo odio, né rancore, né rabbia per quell’uomo di cui, da bambina, mi fidavo ciecamente. Non ho mai provato questi sentimenti –  a dire il vero non fanno parte della mia attrezzatura, non ne possiedo gli enzimi. Non ho provato odio, rancore né rabbia neppure nell’imminenza del fatto, che io ricordi, neppure appena chiusa alle spalle la porta della mia cameretta. Solo, dopo molti anni, un senso di profonda pena per quella miseria umana così vertiginosa. Solo, dopo molti anni, ancora l’interrogativo che mi ha accompagnata da allora – chissà se quell’uomo di oltre sessant’anni, di cui da piccola mi fidavo ciecamente, si sia mai vergognato, mai pentito. Chissà se quando poi è morto in un ospedale della periferia di Roma, nell’affidare la sua anima a Dio, nel confessarsi, o semplicemente, nel contesto di un più laico bilancio delle proprie azioni, chissà se, non dico come ultimo pensiero, ma perlomeno a un certo punto, quell’uomo abbia ricordato anche della volta che decise di deviare la macchina dentro al bosco, mentre riaccompagnava a casa una ragazzina di dodici anni, cresciuta in casa sua, che di lui si fidava ciecamente. 

Era sera, quella sera, diciamo forse le dieci di sera, l’uomo di oltre sessant’anni mi riaccompagnava a casa dopo una delle tante cene condivise alla sua tavola, con i suoi figli e sua moglie, una casa che per me era anche un po’ la mia casa – e il mio cervello ha sicuramente manipolato i ricordi con il passare nel tempo, aggiungendo dettagli e cancellandone altri, e quindi io ricordo che quella sera, mentre l’uomo mi riaccompagnava a casa, ci fosse la nebbia, molta nebbia, ma forse questa è un’aggiunta posticcia e cinematografica della mia mente, perché era senz’altro primavera, e questo invece lo ricordo bene, questo lo so per certo, era primavera e io indossavo una gonnellina senza calze – questo lo ricordo bene e lo so per certo perché è tra le mie cosce nude che quel signore di oltre sessant’anni – che tutti in gioventù dicevano fosse stato bello, e io non lo so ma forse è vero, anche se porto con me la vendicativa e poco lusinghiera immagine di lui in giro per casa in vestaglia e retina in testa – insomma è tra le mie cosce nude che quel signore infilò subito le sue mani appena spento il motore della macchina in mezzo ai cespugli, provocandomi vergogna e ripugnanza, in una ricerca spasmodica e violenta che non capii neppure subito, che mi sembrò innaturale e insensata. 

Questo lo ricordo bene, lo so per certo, era una sera di primavera, io vestivo una gonnellina corta e spingere mordere urlare non servì a molto, non servì a nulla. Neanche piangere servì. Neanche sbattere la testa sul finestrino – come sanno per loro sventura le donne meno fortunate di me, non c’è forza fisica che possa contenere un uomo nella furia – nulla che io facessi con il mio corpo per oppormi al suo avrebbe mai sortito alcun risultato, ed in effetti non ne sortì. Quella lotta scapigliata che avevo intrapreso non serviva a niente – che l’uomo pur nei suoi sessant’anni con una sola mano bloccava le mie, tutte e due, mentre con l’altra continuava a farsi largo tra le mie gambe. Io questo lo ricordo bene. 
Non ho traccia, invece (vedi tu come funziona il cervello, com’è selettivo, come protegge) della sua faccia mentre tutte queste cose accadevano in disordine – del tic che aveva alla spalla, della sua grande mano che teneva ferme tutte e due le mie, di questo sì ho memoria, ma della sua faccia, dell’espressione del viso, se mi cercasse con gli occhi, se avesse i tratti deformati dalla furia o se a momenti comparisse un barlume di colpa. Io di tutto questo non ho ricordo, forse per imbarazzo, forse per lo schifo – non so se a dodici anni ho provato dolore per quello che mi è accaduto quella sera, ma magari è stato proprio per preservarmi dal dolore che l’immagine di quel viso mi è stata oscurata. 

Un’altra cosa che ricordo bene, che non è stata oscurata, è l’inizio del lieto fine – fai quello che vuoi, gli dissi, era evidente che non fossi in grado di impedirglielo, ma poi sarai anche costretto ad ammazzarmi, ché io altrimenti avrei dovuto dire tutto a tutti, avrei raccontato tutto alla sua figlia più piccola, per cominciare, la figlia per lui arrivata in età matura e che era la mia amica del cuore, avrei raccontato a sua moglie, ai miei genitori, ai vicini di casa lo avrei detto, gli avrei rovinato la vita, la reputazione, e perciò che tenesse bene a mente che avrebbe dovuto ammazzarmi, in caso, dopo avermi stuprata. L’inizio del lieto fine in fondo fu capire, intuire, che quell’uomo, per quanto orrendo, quel vecchio che aveva deviato la macchina nel bosco mentre accompagnava a casa una ragazzina che si fidava ciecamente di lui, il signore che metteva la retina nei capelli prima di andare a dormire e che in gioventù era stato forse anche bello, quell’uomo era una merda, era un uomo malato, quell’uomo nascondeva dentro di sé un tratto disgustoso, ma almeno, con tutta probabilità e come poi si confermò, non era un assassino. L’inizio del lieto fine fu barattare l’unica merce che avevo – e cioè il silenzio gratuito, il segreto, una vita di non detto – con la sua ritirata. 
E per quanto assurdo, per quanto implausibile possa sembrare, l’uomo di oltre sessant’anni effettivamente si ritirò, svegliandosi all’improvviso dal suo scollamento con la realtà, e dopo che la macchina fu riaccesa, dopo che lentamente ripartimmo, arrivammo fino a sotto casa mia in silenzio, senza guardarci – un silenzio notturno e angosciato. 
Quando mi lasciò davanti alla porta di casa, il vecchio conoscente di famiglia, il papà della mia amichetta del cuore, ruppe il suo silenzio per dirmi, in fondo laconico, che scema che sei, io ti avrei portata in Paradiso.  

Questa, negli anni, è la parte più solida del mio ricordo di quella notte, lo spezzone che rivedo con maggiore nitidezza – ed è questo segmento che negli anni mi ha fatto spesso leggermente modificare il mio interrogativo, chissà se a un certo punto della propria vita, magari in punto di morte, magari consegnando la sua anima a Dio o nel contesto di un più laico bilancio delle proprie azioni, quell’uomo si sia sentito un coglione integrale, un povero coglione, ad aver pensato che una bambina di dodici anni avrebbe gradito le sue attenzioni e accettato la sua proposta, che una bambina che nel proprio orizzonte immaginario aveva Nick Carter, il più sfigato dei Backstreet Boys (per chi non sa di cosa sto parlando, mi dispiace, ma non saprei da dove cominciare), ecco che questa bambina sarebbe stata felice di imboscarsi con lui, ben lieta di fare l’amore con un sessantenne per giunta con la panza e la retina in testa – chissà se non si sia sentito il più coglione della terra a non aver considerato che avrebbe dovuto usare la violenza per ottenere un rapporto sessuale con una bambina. Che scema che sei, io ti avrei portata in Paradiso.  E ripartì – secondo me, ho sempre pensato, in fondo dispiacendosi di non aver avuto le palle di ammazzarmi sul serio come gli avevo carinamente suggerito, ché chissà che problemi gli avrei creato, chissà a quanti avrei finito per spifferare, quante rogne. 
E invece non raccontai nulla. Per molto tempo. 

Di quell’episodio, per anni, non ho fatto parola con nessuno, ritirando silenziosamente la mia presenza da quella casa che mi aveva vista crescere, lasciando che tutti interpretassero quel cambiamento come un capriccio della primissima adolescenza, accampando scuse, raccontando bugie. Trascorsi quel tempo scomponendo minuziosamente, vivisezionando ogni comportamento che avevo tenuto negli anni con l’uomo che mi aveva cresciuta insieme a sua figlia: avevo guidato per la prima volta la macchina in braccio a lui, sulle sue gambe, molte volte lo avevo abbracciato con sincero affetto. Certamente avevo girato per quella casa, che consideravo alla stregua di casa mia, in pigiama e in accappatoio, forse senza curarmi del mio corpo che di mese in mese cambiava, e quella sera indossavo una gonnellina corta, tante ne avevo indossate in sua presenza. Trascorsi quel tempo del promesso silenzio in fondo condannando quella parte di me che intimamente non poteva non aver intravisto, intuito, il lato oscuro delle sue manifestazioni d’affetto, ma per paura, per codardia, per timore di perdere un’amica, non aveva mai reagito. Ma questo – ora lo so, ora che ho quasi quarant’anni e ho studiato la behavioural law and economics – è un hindsight bias, o creeping determinism, la tendenza di tutti noi a percepire degli eventi come molto più prevedibili di quanto in realtà non fossero, una volta che sono accaduti. All’epoca ero una bambina e il creeping determinism non sapevo cosa fosse, e allora passai il tempo del promesso silenzio a rintracciare nella memoria tutti i momenti, gli sprazzi, i dettagli da cui avrei potuto e dovuto capire e non avevo capito, equiparando il non aver capito al non aver voluto portare alla luce un’intima e vergognosa intuizione. 

Spezzettai, in quel tempo di silenzio, sminuzzai ogni cosa – senza drammi, che io ricordi, senza tragedie, ma mettendo prima me di chiunque altro, e soprattutto prima me dell’uomo che aveva deviato la macchina nel bosco, sul banco degli imputati. Sminuzzai ma non parlai – e anche quando parlai, molto tempo dopo, con mia madre, lo feci edulcorando e censurando, lo feci nascondendo i dettagli più crudi, dai quali, pensai, mia madre non si sarebbe ripresa. Non parlai per molto tempo, e quando parlai lo feci solo in parte. Soprattutto lo feci facendomi giurare da mia madre – eravamo sul letto ed era inverno, mia madre indossava un dolcevita rosso e aveva i capelli legati, io piansi molto, lei pianse molto – insomma, tra le lacrime, dopo le lacrime, parlai facendomi giurare solennemente che nessuno oltre a noi due avrebbe mai saputo. Parlai a mia madre ma trascinandola dentro al mio silenzio, consegnandole questo doppio fardello, sapere e non poter fare nulla. Non parlai per molto tempo, e quando lo feci, lo feci in modo reticente. 

Eppure il mio contesto famigliare mi avrebbe consentito una sincerità assoluta: sono cresciuta in una famiglia colta e benestante, fondata sulla fiducia reciproca e sul reciproco supporto. Tutti mi avrebbero creduta, tutti mi avrebbero aiutata – e io, bambina sempre sicura dell’amore genitoriale, non avevo alcun motivo di dubitarne. Se fui reticente fu per istinto di protezione – anzi forse, a mia memoria, fu quella la prima volta in cui provai il desiderio di proteggere mio padre e mia madre, rovesciando il paradigma naturale. Nelle vene di mio padre e di mio fratello scorre  sangue abruzzese, di Celano, più nello specifico – che ha fama, a mio avviso ampiamente fondata, di essere il luogo più litigioso dell’occidente. Immaginavo mio padre, il mio mite papà, recarsi con un machete alla porta di quest’uomo, suonare il campanello e fare due carezze al cane che gli correva incontro come se fosse una giornata come le altre, la faccia dell’uomo irrigidirsi, e mio padre non resistere alla tentazione di scagliarsi contro di lui con un grido belluino per farlo a pezzi.
Mia madre, dal canto suo, non sarebbe passata indenne dalla crudezza della storia in versione integrale – mia madre, la donna da cui mio malgrado ho ereditato una spiccata propensione al senso di colpa, non si sarebbe mai perdonata, in fondo, l’avrebbe considerata una sua disattenzione. La mia testa immaginifica da adolescente prefigurava questa ordalia indistinta di violenza, dolore, pianti e psicofarmaci, la mia famiglia sul lastrico per pagare gli avvocati, mio padre e mio fratello in carcere – certo un setting da telenovela di bassa tacca, e forse esagerai, ma se parlai con reticenza fu solo per questo, per paura dell’esito tragico, per non ferire a morte i miei genitori. E così quel vecchio conoscente non fu punito, non fu costretto a curarsi e non fu costretto a chiedere scusa – e per questo forse la storia che racconto è a lieto fine ma solo per me, non per lui, e non certo per le adolescenti che chissà saranno transitate ancora dalla sua vita. Sono io che mi sono salvata e non ho parlato, sono io che, alle soglie dei quaranta non ho traumi e non sono abitata da nessuna ferita, sono io che ho scambiato il silenzio con la serenità del mio nucleo familiare. 

E’ forse per questo che mi viene da sorridere quando gli acuti commentatori attribuiscono grande rilevanza al tempo trascorso tra le molestie e le denunce delle presunte vittime, come se si potesse sapere come quel tempo sia stato trascorso, come se la paura, la vergogna, l’indecisione, le mille variabili, lo stupore, il senso di colpa, la ritrosia a trovarsi al centro della tempesta, l’incapacità di gestire una situazione inedita e complicata, come se tutto questo non consumasse il tempo, come se il tempo non fosse mangiato dalla paura. 

Per questo mi viene da sorridere quando (spesso gli stessi) acuti commentatori girano l’occhio della telecamera sulla presunta vittima, cercando di stanarle qualche responsabilità per l’accaduto – fosse anche l’ingenuità, di cui all’improvviso ci si stupisce, l’ingenuità che è il tratto distintivo, più desiderabile, l’ingenuità delle adolescenti, bella, bellissima ingenuità delle adolescenti decantata dai poeti, e rimpianta dai nostalgici e da Claudio Baglioni, bisogna essere meno ingenue ragazze, testa sulle spalle. Più responsabili, più rette, più in guardia – questo noi vogliamo dire alle adolescenti e alle donne che sono state, o dicono di essere state, stuprate, molestate, aggredite, state più attente ragazze per l’amor di dio, che se andate in giro per i boschi trovate il lupo. Ma chi poi lo stabilisca quale sia il limite dell’ingenuità, non è dato saperlo. Imparare a guidare in braccio a un amico di famiglia è ingenuità? Fidarsi dei propri compagni di scuola è ingenuità? Provare ad avere una vita sentimentale e sessuale normale, uscendo di casa, conoscendo persone, provando a fare le proprie esperienze, o, in alcuni casi, fidarsi del proprio compagno o marito, o non essere nelle condizioni emotive o economiche di liberarsene: quand’è che finisce l’ingenuità, il non avere la testa sulle spalle, e inizia la sfortuna di essere capitate nella situazione sbagliata? Bisognerà forse inventare e introdurre un ingenuometro, un attentometro, per stabilire questo limite e attribuirgli rilevanza, mentre proviamo a bacchettare anzitutto un po’ le presunte vittime cercando di capire, prima di ogni altra cosa, se si sono comportate come si deve. 

Che è poi un orrido e curioso ibrido tra le considerazioni che avrebbe fatto mia nonna Lina (classe 1920) e una strana forma di presunto garantismo – come se garantismo fosse ripartire, anche in percentuali non uguali, la responsabilità dei fatti su più persone, come se fosse andare a scandagliare le presunte colpe delle vittime accanto a quella degli aggressori. Quando invece garantismo, tra le sue mille sfumature e diramazioni, significa desiderare (e noi lo desideriamo più di ogni altra cosa) e assicurare che chiunque abbia commesso un reato sia sottoposto a un processo giusto, e che abbia il diritto di difendersi con parità delle armi, diritto a essere considerato innocente fino alla sentenza di condanna. Questa è una delle nobili forme del garantismo penale, non certo la ricerca di una percentuale di responsabilità anche della persona offesa, che è un modo cafone e becero e selvaggio (con tutto l’amore e il rispetto per mia nonna Lina, classe 1920) di concepire il garantismo. E un modo vuoto di ragionare, tanto vuoto quanto lo sono gli slogan che si collocano sull’altra sponda del ragionamento – sorella io ti credo e derivati – ché non si crede a nessuno per partito preso a meno che non sia per amore e per vincolo di famiglia, non si crede a un’accusa per il solo fatto che venga ripresa dai giornali e rimbalzata sui social network, o che sia plausibile e funzionale a una battaglia. 

Sono due facce della stessa povera medaglia di un povero dibattito, che si accende e si infiamma sui casi di cronaca e in certi giorni dell’anno in cui cambiamo le nostre immagini del profilo sui social con facce scure e frasi fatte e consumate, basta la violenza sulle donne – ah ok, ottima idea, aspetta che me lo segno. Il tutto, mi pare, in sostituzione di una riflessione seria, profonda, sul cortocircuito, sempre più forte, sul baco che si è inserito nel rapporto tra uomo e donna al di fuori di questo mondo dorato in cui ci possiamo preoccupare di reclamare posti nei consigli d’amministrazione e sfondare tetti di cristallo, di questo paradigma, che cambia, con resistenze sempre più forti da sacche sociali diverse, di età diverse. Per fortuna, di queste riflessioni profonde non tocca a me occuparmi in queste righe – io che d’altronde non sono un sociologo, e neppure uno psicologo – io che, a dire il vero, sarà pure ora di confessarlo, non sono neanche una giornalista. Io che, in fin dei conti, ero passata di qui solo per raccontare una storia a lieto fine.

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