Anche noi fighette di sinistra non capiamo il manifesto programmatico

Ester Viola

Il paese reale è lontano anni luce, ma forse lo stiamo capendo. Dopo aver votato di tutto, forse Schlein comincia a diventare troppo pure per quelli che si erano fatti andare bene tutto

Essere di sinistra. Sinistra Pd, un partito davvero bellino, di presentabilissimi zona élite. Si figurava molto bene, nel Pd. Eravamo peraltro il miglior pubblico incassatore, non abbiamo mai scontentato segretari. Perdere non ci ha mai cambiati, delusi o fatti insorgere. Lo so bene come sono diventata di sinistra. Sono la Ztl poco informata, quella che vota a sinistra per responsabilità. Com’è successo? Chi si ricorda come siamo diventati di sinistra, noi fighetti, che siamo pure la parte più grossa, quel-quasi-ventipercento-che-non-s’arrende-mai? Noi neanche un pochino militanti, solo democratici, lamentosi e ceto scarsamente riflessivo in più dotato del tipo di cultura che serve solo a fare bella figura (neanche sempre)? La mia fortuna, l’investitura di sinistra, fu mio padre che portava a casa la mazzetta dei giornali tutti i giorni. Ero al liceo e si studiavano tutti i più tristi, Leopardi e Manzoni, difficile appassionarsi. Per lo svago vacanze t’assegnavano Verga e Italo Svevo, così per leggere e divertirmi nell’attualità restava solo Michele Serra. Come mi piaceva Michele Serra. E Stefano Benni. Anche lui, come mi piaceva, ogni tanto sulla Repubblica. Era il periodo antiberlusconiano duro, si vendeva ancora L’Unità. L’età dell’oro editoriale, gli anni 90. Si tracannava amarezza a fiaschi, ma si rideva pure. Se erano di sinistra loro, allora dovevo essere di sinistra anche io.

  

Ero una privilegiata, ed erano privilegiati gli altri compagni diciottenni del liceo classico Giannone di Benevento, dove ero iscritta alla sezione A. Lavoravano due genitori su due, studiavo tanto, mi compravano (quasi) tutto quello che volevo. Eravamo comunisti com’era comunista Marco Cocci in “Ovosodo”, il figlio del proprietario di mezza Livorno. Il giovine rivoluzionario coi soldi, simpatico, ricco sfondato. Trovai solo anni dopo, nel Desiderio di essere come tutti, le ragioni della tendenza a gauche.

  

Mi sentivo amato, quando perdevo. Mi sentivo a mio agio. La mia propensione alla sconfitta – e più precisamente il piacere di combattere contro avversari imbattibili, e migliorare e conquistare qualche punto in più, resistere ogni volta un po’ di più prima di soccombere – era ciò in cui mi ero identificato da sempre, in tutti i campi della mia esistenza. Volevo ritrovare a tutti i costi quella condizione della Germania Est contro la Germania Ovest; l’unica posizione che mi interessava era quella: essere più debole, fare fatica, essere sul punto di perdere, e poi con uno scatto improvviso vincere a sorpresa. Non riuscivo in nessun modo a godere della vittoria essendo forte, schiacciando, avendo superiorità. Era un istinto, me ne sono reso conto soltanto ripensandoci dopo, ma era quello che cercavo. Ma la cosa terribile che scoprii è che da quella condizione di debolezza e di essere sul punto di perdere, poi si perdeva per davvero. Quasi sempre. Anzi, sempre.

La questione definitiva della sinistra alla quale mi sentivo di appartenere senza alcun dubbio, fu questa: Craxi rappresentava un’innovazione troppo cinica, disinvolta, corruttibile, poco oggettiva e famelica; di conseguenza – e questa è stata una transizione di pensiero del tutto decisiva per la storia della sinistra italiana – fu l’innovazione stessa a significare cinismo, disinvoltura, corruttibilità, famelicità. La sinistra si ritirava per sempre, e con assoluta convinzione – sicura di stare dalla parte della ragione – dal proposito del progresso per trasformarsi in forza reazionaria. Dall’entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un’idea di purezza – interpretata come un destino – che non morirà più. Quello che Moro aveva temuto, si verifica alla lettera: il Pci diventa interlocutore esterno della realtà. Ma quello che Moro indicava come un pericoloso punto di forza, diventa una condanna alla marginalità, alla sconfitta. E’ qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un’idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un’alternativa astratta, pulita, arroccata. Un’alternativa pura. Da quel momento in poi, ogni sconfitta politica diventa un rafforzativo delle proprie idee. Una conferma che il mondo è corrotto e che il progresso è malato. Una conferma, quindi, che le persone giuste e i pensieri giusti sono minoranza, fanno parte di un mondo altro, che non comunica più con il paese – perché il resto del paese, impuro e corrotto, si è perduto. 

(F. Piccolo. Il desiderio di essere come tutti).

    

Era questa proprio la diagnosi precisa. Torniamo al liceo Giannone di Benevento nel 1996. Giunta l’età del voto, maturata una verde coscienza politica, non mi sentivo ancora di sinistra come si doveva essere, come parevano essere di sinistra certi studenti che avevano la kefiah al collo d’estate e d’inverno, masanielli dello sciopero, poi sempre nominati rappresentanti d’istituto. Quelli che in pullman per la gita a Praga imposero tutto il tempo le canzoni di De Gregori e Guccini e ogni tanto partivano con il coro “El pueblo unido jamás será vencido”. Si scoprì in seguito che neanche loro erano di sinistra autentica, al pomeriggio i professori spennavano i genitori a ottantamila lire all’ora di varie lezioni private perché il pueblo era unido ma gli pesava parecchio fare la versione di greco e della trigonometria non ne parliamo. A parziale discolpa, ero meno fighetta di loro, io i compiti me li dovevo fare da sola. A ulteriore parziale discolpa del mio essere una fighetta ci fu che lavorai dopo la laurea per un po’ di tempo come avvocato giuslavorista in uno studio che affiancava la Cgil.

  

Olé! La mia occasione. Potevo essere di sinistra consapevole e degna. Era il mio momento di guadagnarmi un’identità, o almeno un saperne qualcosa. Andavo contro il padrùn. Tutti i giorni. Più sinistra di così. La mia fighetteria di sinistra lì vacillò moltissimo, non solo perché non buscavo una lira. Dovetti fare i conti col fatto che tra i deboli lavoratori e gli imprenditori la linea non era come me la immaginavo. Drittissima. Il padrùn, specie quello italiano, quello della piccola e media impresa che è il 98 percento dei soldi che produciamo, è perlopiù uno che lavora come una bestia per 15 ore al giorno, insieme agli operai. Fa i soldi, ma non ha il tempo di spenderli. Li spendono i figli, infatti tutte le aziende migliori qui se le stanno comprando i fondi stranieri, i genitori sanno già che chi c’è dopo di loro non ce la farebbe, però questo è un altro discorso e lo facciamo un’altra volta. Insomma votavo a sinistra, voto a sinistra, ma sono rimasta come al liceo, una disonesta del voto. Dovevo stare da questa parte per principio, negli anni spostandomi naturalmente in zona Ulivo, approvando la svolta democratica, i tentativi di modernità. Passò il tempo e iniziarono a farci notare quello che notavamo pure noi da dentro: ci stavamo facendo conventicola autoriferita. Vinceva sempre Berlusconi, sempre lui. Noi non solo perdevamo, ma iniziavamo a sembrare scemi. Anche Moretti anni prima si accorse che ci stavamo facendo troppo fighetti, fighissimi e si doveva cambiare classe dirigente perché con questa non andavamo da nessuna parte.

  

A un certo punto, dei mille tentativi di segreteria, ci fu Veltroni che si rifiutava di nominare Berlusconi chiamandolo “il principale esponente dello schieramento avverso”. Diceva che era tattica psicologica, funzionava sicuro. Come il barone Lamberto al contrario, si sa che le parole sono importanti. Ci coprimmo vieppiù di ridicolo. Neanche lì mi sono scoraggiata. Era bellissimo soffrire le ingiustizie di un paese che vota con ostinazione sempre lo stesso errore, si davano alle stampe certi editoriali ancora più strepitosi che avrei votato a sinistra altre centomila volte. Dopo tre giorni l’analisi della sconfitta finiva con un capolavoro comico di delusione e speranza, eravamo tutti alta aristocrazia della disfatta, eleganti, un po’ interisti, blasé. Arriviamo a oggi, sono sempre fighetta di sinistra. Stento a stare dietro al manifesto programmatico. L’equilibrio vita lavoro, i superdiritti del futuro, qualche affondo sulla sanità ma poco convintamente, molto gli uteri in affitto e in generale idee vaghe. Cui prodest? Mi chiedo, certo, dalla torre della Ztl di Milano mentre mangio tartine al caviale.

  

Anche una fighetta di sinistra come me deve contare le tasse. E si fa l’assicurazione sanitaria perché non si sa mai. E pensa al fondo pensione, perché non si sa mai. Alle piccole partite Iva ci penserà, Schlein? Quando sarà al governo? Perché non parla e quando parla non si fa capire e pare fatto apposta? E quando ci arriva al governo con quella prosa affettata? Da conventicola siamo diventati circolo degli scacchi, club del libro. L’anti senso del paese reale di sinistra ha raggiunto, sembra evidente, il suo picco massimo. La lista dei tic di sempre si è arricchita di una detestabilità nuova di zecca. Dopo aver votato di tutto, forse Schlein comincia a diventare troppo pure per quelli che si erano fatti andare bene tutto. Pur di essere fighetti, ma così è troppo fighetti.

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