La figura vestita di bianco nella “Scuola di Atene” di Raffaello, erroneamente identificata come la filosofa Ipazia (Wikipedia) 

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Mai dire donna. La filosofa femminista Adriana Cavarero contro la neolingua che parla di “persone con utero”

Paola Tavella

Ispiratrice di Elena Ferrante, Cavarero è autrice di decine di saggi sul genere e sul femminismo. "Eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione". Intervista

Elena Ferrante l’ha indicata come ispiratrice dell’Amica geniale, solo un esempio dell’ammirazione e dell’importanza riconosciute alla filosofa politica femminista Adriana Cavarero. Fondatrice, negli anni Novanta, di Diotima, comunità filosofica che ha influito su generazioni di pensatrici, attiviste, artiste e politiche in tutto il mondo, Cavarero ha insegnato all’Università di Verona e pubblicato, fra l’altro, Il pensiero della differenza sessuale e Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione. Ora Castelvecchi ripropone tutta la sua opera, oltre al nuovo Donne che allattano cuccioli di lupo, mentre a dicembre Mondadori manderà in libreria Essere una donna (titolo provvisorio). 

 

Un anno fa, intervistata per L’Arena da Stefano Lorenzetto, osservava: “La teoria del gender fluid sostenuta dalle avanguardie Lgbt è che ci sono persone le quali fanno esperienza del cambio di sesso e verrebbero escluse dalle categorie uomo e donna. La loro polemica più accentuata è verso l’uso della parola donna. Vogliono che non si dica che le donne partoriscono, ma che ‘le persone con utero’ partoriscono… dopo duecento anni di lotte delle donne per avere una soggettività politica femminista, si elimina il soggetto che ha compiuto questa rivoluzione… Si tratta di un’operazione metafisica, fondata sulla cancellazione della realtà e della percezione, oltraggiosa per il movimento delle donne. Ora che gliel’ho detto, voleranno gli stracci”. 

 

Adriana Cavarero, che cosa è successo, dopo quell’intervista? “Sapevo che il semplice dire una fattualità di cui rende conto, per esempio, la scienza biologica, avrebbe provocato la reazione della galassia lgbtqi+, ed è accaduto. E’ vietato dichiarare che i sessi sono due, la censura è fortissima. Chi lo fa, secondo costoro, si pone automaticamente a destra, con conservatori, estremisti cattolici, reazionari. La neolingua proibisce la parola ‘donna’, non può essere detta né scritta. In un saggio per un libro collettaneo in inglese ho usato ‘women’ e l’editor ha proposto, per il mio bene, di sostituirla con ‘persone con utero’. Il tema del mio saggio sarebbe così diventato: ‘Le persone con utero nella narrativa del Novecento’. Mi sono rifiutata, ho lasciato ‘women’. Ma io sono in pensione, libera, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti ti licenziano”.  I censori impongono la neolingua in nome di un dogma quasi religioso: bisogna credere a qualcosa che non si vede, di cui anzi si fa l’esperienza opposta. “I fautori della neolingua contestano il dato, o meglio il fatto, della differenza sessuale, per cui gli esseri umani, come gli altri animali, sono divisi in individui di sesso femminile e maschile – noi li chiamiamo uomini e donne. Questa realtà sarebbe una gabbia teorica, un pregiudizio che escluderebbe coloro che transitano da un sesso all’altro o che non si riconoscono in nessuno dei due sessi o si auto percepiscono come fluidi”. 

 

Transitare da un sesso all’altro non significa che i sessi sono due? “All’interno ci sono tante sfumature, ma dal punto di visto logico il transito avviene fra i due poli della differenza sessuale. L’obiezione abituale a chi afferma il fatto che i sessi sono due è l’esistenza di persone intersex, che alla nascita presentano organi genitali maschili e femminili e un quadro ormonale che non permette di catalogarli. Prima della medicina moderna non si interveniva, poi è invalsa la pratica di ‘correggere’ chirurgicamente queste persone alla nascita, conformandole a uno dei due sessi. Oggi si riconosce che questa operazione precoce crea enormi problemi e molta sofferenza. La tesi lgbtqi+ sostiene che le persone intersex sono nel mondo tante quante quelle con i capelli rossi, ma altri studi negano che il numero sia così alto. Eppure, in nome di questa realtà marginale rispetto al funzionamento del genere umano e animale, si dice che, quando scriviamo o diciamo che i sessi sono due, noi compiamo un colpevole atto di esclusione nei confronti delle persone intersex, oltre che delle persone fluide su base non biologica. La minoranza di persone intersex assurge a paradigma regolativo, da cui la famosa frase ‘sesso assegnato alla nascita’, che io ritengo una summa della neolingua, visto che non vale per la stragrande maggioranza degli esseri umani, che è maschio oppure femmina perché tale ‘appare alla nascita’ come direbbe Hannah Arendt”.   

 

I protocolli della neolingua vietano le desinenze finali o frasi come “tutti e tutte”: va usato l’asterisco o la schwa. “L’effetto della neolingua che neutralizza la differenza sessuale è la cancellazione del femminile, e per una femminista è stupefacente, perché noi abbiamo lottato contro l’uso del maschile universale. Ricordo la mia contentezza nel sentire per la prima volta dire alla radio ‘ascoltatori e ascoltatrici’. Ora si dovrebbe dire ‘Buongiorno a tutt* coloro che ascoltano? A tuttu coloro che ascoltano’? Ridicolo, oltre che cacofonico. Il femminismo ha combattuto perché la lingua riconoscesse la differenza sessuale, ora il sesso femminile è occultato e ricompreso in un neutro universale che è in verità maschile”. 

 

Ma il movimento lgbt non era nostro alleato? “La lotta delle donne è stata condotta anche attraverso l’alleanza con i movimenti delle minoranze sessuali. Da queste minoranze viene ora la pretesa di cancellare attraverso la neolingua la soggettività femminile, che ha sempre combattuto accanto a loro. Una situazione che giudico ingiuriosa”. Eppure alcune femministe sembrano d’accordo. “Parte del femminismo, e della sinistra, subisce l’eterno fascino delle avanguardie sovversive, e il mondo lgbtqi+ è, in tal senso, un’avanguardia. Il femminismo si è sempre considerato un’avanguardia in lotta contro l’oppressione patriarcale e il sistema autoritario, in posizione di rottura rispetto alla tradizione. Ora una rottura clamorosa ci è piombata addosso con la neolingua di minoranze sessuali che vogliono cancellare la parola ‘donna’. A prima vista la neolingua sembra sovversiva, e i suoi i fautori si presentano come rivoluzionari, pronti ad abbattere il castello patriarcale. Ma è un abbaglio, il cui risultato è un rafforzamento del patriarcato. Non a caso, nella galassia lgbtqi+ gli omosessuali maschi sono largamente egemoni. La mia posizione è combattere per la libertà delle donne, contro lo sfruttamento e la cancellazione della soggettività femminile. Le femministe alleate con la neolingua sbagliano, perché aderiscono a posizioni che cancellano la storia del femminismo, usato come un qualunque brand, senza rispetto né conoscenza della sua storia e del suo pensiero. In che senso sei femminista, se accetti di sostituire la parola ‘donna’ con l’espressione ‘persona con utero’? Come mai la neolingua non è altrettanto accanita nel sostituire la parola ‘uomini’ con ‘persone con testicoli’?”.   

 

Uno degli argomenti dei sostenitori della neolingua è che sarebbe uno strumento di inclusione. “La neolingua ruota intorno alla parola ‘inclusione’ come bene assoluto, mentre il male è l’esclusione. Io diffido del concetto di inclusività. Nella mia storia di studiosa di filosofia ho sempre combattuto le parole inclusive universali, come la parola ‘uomo’, che ha sempre preteso di essere universale e di includere l’intero genere umano, perché sono espressione di volontà di dominio. Nella storia politica a cui appartengo, quella femminista, il termine inclusione era assente, perché rimanda a una pretesa universalità. Al centro della storia del femminismo non c’è affatto la ricerca di parole inclusive bensì di parole che sottolineano la differenza, la pluralità. Quella femminista è una soggettività che sottolinea innanzitutto la sua parzialità, una parzialità reale, in carne e ossa, la parzialità reale delle donne che rivendicano un ordine simbolico e un immaginario per il loro sesso”. 

 

Un altro tema centrale sul quale la polemica è aspra, perfino fra femministe, è la maternità. “La critica della mistica della maternità, il rifiuto della maternità come destino, trappola funzionale all’oppressione patriarcale, fa parte della storia del femminismo. E’ prevalsa nel femminismo, soprattutto angloamericano, una tendenza a trascurare il tema della maternità. Ora ne paghiamo lo scotto, perché si è imposto un nuovo discorso sulla maternità che io chiamo un ‘perfezionamento della tesi di Aristotele’. Per Aristotele l’utero è un contenitore organico, addetto alla maturazione del feto che poi viene espulso. Si tratta della riduzione della donna a utero e dell’utero a contenitore del bambino che poi, però, appartiene al padre e non alla madre. Un immaginario che preannuncia l’utero in affitto. L’ingegneria genetica ha reso possibile il sogno di Aristotele: la madre gestante viene considerata un puro utero, un contenitore al servizio di altri, adatto a far crescere l’embrione, che le è stato impiantato, e a farlo diventare un bambino, che però non è suo. Gli antichi, con Eschilo, dicevano che la madre non è la generatrice bensì solo la nutrice del feto, e il bambino che partorisce è perciò del padre. Adesso invece il bambino è dei committenti. L’industria della procreazione sfrutta soprattutto le donne più povere, le costringe dentro contratti in base ai quali la donna-utero deve mangiare, curarsi, abortire o non abortire, regolare i suoi rapporti affettivi, partorire in un modo o in un altro, essere sedata dopo il parto per non disturbare i committenti con il suo dolore. Perfino i pensieri e i sentimenti delle donne-utero sono colonizzati, devono accettare consulenze psicologiche per non legarsi al feto che portano in grembo. E affrontano rischi per la salute, per via delle stimolazioni ormonali, e perché il loro corpo deve adattarsi a ospitare l’ovulo di un’altra, con un diverso patrimonio genetico. Per non parlare del neonato, di cui sono violati i diritti umani fondamentali, nessuno escluso”. 

 

Eppure ci sono donne favorevoli in nome dell’autodeterminazione. “Si tratta piuttosto un’accettazione pedissequa del principio individualista neoliberale moderno, quello che nasce con Locke e con Kant. Fossero oneste, direbbero: io abbraccio affettuosamente il paradigma dell’individualismo neoliberista funzionale al mercato globale, contrariamente al femminismo che ha invece sempre parlato di soggettività relazionale e ha nutrito un’estrema diffidenza verso il feticcio dell’individuo che si autodetermina. Non solo la critica femminista, ma pressoché tutte le scienze umane hanno da tempo denunciato la figura dell’individuo che si autodetermina come fasulla, mostrando come qualsiasi decisione sia condizionata dalla situazione in cui ci troviamo: le donne povere affittate come uteri subiscono moltissimi condizionamenti materiali e culturali, altro che autodeterminazione. Un altro aspetto del tutto estraneo alla critica femminista è l’assolutizzazione del desiderio di maternità e di paternità, la trasformazione in diritto, un delirio fomentato e indotto dall’industria della procreazione. Il femminismo teorizza e pratica la cultura del limite e della parzialità, in diretto contrasto con il sogno maschile di onnipotenza. Mi indigna l’ipocrisia di coloro, miei fratelli e sorelle di sinistra, che si dicono contrari alla gestazione per altri commerciale ma salvano quella ‘solidale’, in cui la madre surrogata ‘dona’ il bambino ai committenti. Come prova portano i racconti delle ‘donatrici’ che esprimono felicità, frutto di un marketing della narrazione che sa il fatto suo. Ammettiamo che ci siano casi in cui una donna fa dono di un figlio a una sorella sterile, casi rarissimi che non mobiliterebbero l’opinione pubblica e la legge. Ma non nascondiamoci dietro un dito: si tratta di dire sì o no a mercati procreativi che sfruttano i corpi delle donne e riducono i bambini a oggetti producibili e scambiabili. Il problema non è complesso, come ipocritamente si dice, e la soluzione è ancor più semplice: allargare l’adozione”.

 

La teoria gender viene fatta risalire alla filosofa americana Judith Butler. Avete collaborato e anche scritto insieme: credi che delle sue teorie sia stato fatto un uso che va oltre le intenzioni dell’autrice? “Butler è una pensatrice geniale, generosa e capace di evoluzione, perché i suoi interessi sul gender, sviluppati negli anni Novanta, si sono ora spostati su temi quali la vulnerabilità, la precarietà e la non violenza. All’epoca imperava nel femminismo angloamericano la tesi di una distinzione fra sex (sesso biologico) e gender, inteso come costruzione culturale del femminile e del maschile. Butler sostiene che non solo il gender, ma anche il sex è una costruzione culturale, ossia che anche il sesso biologico, lungi dall’essere un mero fatto, è effetto del discorso. Nasce da qui la riappropriazione da parte del mondo queer della tesi di Butler, enfatizzata nel suo permettere di dire che il sesso con cui nasciamo non è un fatto che ci inchioda a un’identità sessuale bensì qualcosa che dipende dalla nostra auto percezione, fluido e modificabile. Estremizzando queste premesse, dal mondo queer è sorta la neolingua di cui abbiamo parlato. Non credo che questo esito fosse nelle intenzioni di Butler. Credo che in lei ci sia ascolto rispetto agli esiti delle sue tesi giovanili ma anche un certo imbarazzo rispetto al danno che ne è venuto al femminismo, di cui si è sempre dichiarata paladina”.

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