Orlando di Sally Potter

Transgender in viaggio -4

La vita dopo il nuovo gender

L'identità di genere tra realtà e rappresentazione. La transizione tra cronaca e legge, famiglia e individuo, satira e anatemi, parola scritta, cinema e teatro, dalla Gran Bretagna, all'Italia, agli Usa

Marianna Rizzini

Il caso scozzese, con la ex premier che si dimette mentre la legge sul cambio di sesso viene contestata da Sunak. Il bus su cui Greta è salita senza abbonamento per non dover usare il dead name e la scelta di Cinzia, sua madre. “La madre di Eva” prima dell’operazione della figlia-figlio

“… Si potrebbe sostenere con qualche ragione che sono gli abiti che portano noi, e non noi che portiamo gli abiti”. Da “Orlando”, Virginia Woolf, 1928

Dormire non cento anni, come la Bella addormentata nel bosco, ma sette giorni e svegliarsi donna, in un altrove spazio-temporale come Orlando, l’aristocratico poeta elisabettiano protagonista del noto romanzo di Virginia Woolf, scritto nel 1928 e ispirato alla vita della sua amica e amante Vita Sackville-West, da cui Sally Potter nel 1992 ha tratto il film che ha fatto di Tilda Swinton la grande attrice dal volto androgino. Potersi svegliare donna: lo ha sognato molte volte Greta, adolescente transgender di Ravenna, ora sedicenne, quando, a tredici anni, ha cominciato a dichiararsi ragazza a genitori e fratello, mentre fuori, a scuola, era partita da tempo la tiritera di insulti che sua madre, Cinzia Messina, poi fondatrice e presidente dell’associazione “Affetti oltre il genere”, fondata per aiutare i ragazzi trans ad affrontare gli anni dello studio senza rischiare l’abbandono precoce di fronte a prese in giro, indifferenza, bullismo e violenza, vorrebbe vedere superata con leggi ad hoc, motivo per cui, prima e dopo la bocciatura del ddl Zan, si è impegnata con raccolte firme e iniziative di sensibilizzazione. Greta invece non pensava proprio di compiere azioni alla Rosa Parks, l’attivista americana simbolo del movimento per i diritti civili che, nel 1955, nel Sud segregazionista degli Stati Uniti, si è rifiutata di cedere il posto su un autobus a un bianco, dando vita al boicottaggio dei mezzi pubblici da parte degli afroamericani a Montgomery. Greta in autobus ci andava, ma non con la tessera dell’abbonamento su cui deve essere scritto il nome di battesimo, nel suo caso il “dead name”, il nome morto maschile, quello che voleva dimenticare in attesa dei nuovi documenti. Cinzia le dava tutti i giorni due biglietti, andata e ritorno, mentre a casa il padre abbandonava l’atteggiamento iniziale, quello dell’“aspettiamo che passi”, per diventare un portavoce di Greta nei negozi di vestiti femminili, perché lei si vergognava a chiedere. Pasticciona come tutti i tredicenni, un pomeriggio, proprio in autobus, di fronte ai controllori, si è accorta di aver perso, dimenticato o scambiato il titolo di viaggio. Aveva chiesto allora invano di poter chiamare sua madre, giunta poi di corsa al capolinea per spiegare la situazione agli ignari impiegati dell’azienda trasporti – che avevano infine acconsentito alla creazione di un abbonamento “alias”, con il nome di Greta invece del dead name, cosa che può essere ottenuta dal ragazzo o dalla ragazza transgender anche a scuola, se l’istituto prevede nel suo regolamento questo tipo di accordo privato. Oggi Greta va in terza superiore, è serena con se stessa, dice Cinzia, ma ancora fatica a trovare amici e si lamenta. “Le ho detto che io ci sono e sono arrivata fino a qui, ma l’altra parte di ‘lavoro’, come tutti, lo deve fare lei”, dice la madre, che non vuole trattare sua figlia in modo diverso da come la tratterebbe se non fosse transgender. Non le piace il pietismo, anche se alcune cose la fanno arrabbiare: “Possibile che persone che la vedono tutti i giorni da anni non siano neanche curiose di capire? Io ho la terza media, ma quando sento parlare di qualche cosa che non so, vado su Amazon e mi compro un libro sull’argomento”. 
“Omofobia, bifobia e transfobia costituiscono un’insopportabile piaga sociale”, ha detto il presidente della Repubblica due giorni fa, il 17 maggio, in occasione della Giornata internazionale contro le suddette manifestazioni di intolleranza, “dettate dal misconoscimento del valore di ogni persona”, ha aggiunto Sergio Mattarella, invocando “risposta di condanna unanime”. Nello stesso giorno, il Senato ha approvato una mozione unitaria per il contrasto all’omofobia – che impegna il governo a sostenere “nelle competenti sedi istituzionali europee e internazionali un’ampia coalizione di Stati per promuovere la depenalizzazione universale delle condotte relative a rapporti consensuali tra persone adulte dello stesso sesso e a garanzia del rispetto dei diritti umani universali”. Fuori dai confini, intanto, in Scozia e in Spagna, il dibattito sul gender ha prodotto leggi che permettono di cambiare genere sui documenti a chi ha più di 16 anni, senza obbligo di una diagnosi di disforia ma con un’autocertificazione, anche se il premier inglese conservatore Rishi Sunak ha annunciato di voler bloccare quella approvata dal Parlamento scozzese. Non solo, la ex premier scozzese Nicola Sturgeon, dimessasi nello scorso febbraio, proprio su quella legge ha dovuto affrontare un dibattito molto divisivo, sulla scia del caso della trans Isla Bryson, nata uomo e condannata per due stupri commessi prima dell’intervento, infine portata in un carcere femminile, con conseguenti proteste in tutto il paese, da parte di chi temeva che la legge sull’autocertificazione aprisse la strada a un aumento delle violenze maschili, anche se sotto spoglie femminili. La cronaca, stavolta nera, ha fatto invece da apripista in Inghilterra a una corsa in avanti sul gender, quando, tre mesi fa, Brianna Grey, ragazza trans di 16 anni, è stata trovata morta in un parco nell’Inghilterra del nord, e il crimine, per il quale sono stati arrestati due quindicenni, è stato considerato possibile crimine d’odio, visti gli atti di bullismo subiti da Ghey, che aveva raccontato tutto su Tiktok. Il clima esacerbato, e non da oggi, ha prodotto anche quello che viene chiamato “anatema Rowling”: la scrittrice J.R. Rowling, “mamma” di Harry Potter, è stata accusata di essere una “terf” (trans-exclusionary radical femminist), per via delle prese di posizione su quello che ha definito il “nuovo attivismo trans”. “Non mi piegherò di fronte a un movimento che ritengo stia facendo danni dimostrabili, nel tentativo di erodere il concetto di ‘donna’ come classe politica e biologica, e offrendo protezione ai molestatori come pochi nella storia”, ha scritto un giorno Rowling, rivelando di aver subito violenze e abusi nel corso del primo matrimonio. “Conosco e sostengo persone transgender”, diceva, ma “non sono disposta a cancellare il concetto di ‘sesso’”.

Negli Stati Uniti, intanto, il gender è uno dei temi su cui i futuri candidati alle primarie presidenziali, da una parte e dall’altra, misurano la tenuta ideologica, l’emotività e la paura del proprio elettorato: paura della discriminazione o, al contrario, dell’eccessivo permissivismo sul concetto di “fluidità”. La posta in gioco politica, sociale e culturale è alta. Nel 2021, a New York, i dipendenti di Netflix hanno appeso dei cartelli con la scritta “Hey Netflix: Do better” (“Hey Netflix: fai di meglio”) e “Transphobia is not a joke” (“La transfobia non è uno scherzo”) quando il comico americano Dave Chappelle, nello show “The closer”, con la comicità greve che riservava a chiunque, aveva preso in giro gli attivisti Lgbtq+. E quest’anno, a Sanremo, anche Checco Zalone è stato contestato da associazioni e telespettatori sui social per la “fiaba trans” raccontata sul palco dell’Ariston: “Una fiaba narrata in Calabria così anche al sud sono contenti”, aveva detto il comico, parlando di Oreste, trans brasiliano invitato al ballo a corte e osteggiato dal re omofobo, “cliente affezionato” di Oreste. Alessandro Battaglia, ex coordinatore del Torino Pride e presidente dell’associazione Quore, si era rammaricato che la pur lodevole intenzione del comico di attaccare il maschilismo fosse a suo avviso sfociato in quello che la senatrice Monica Cirinnà, ex senatrice pd e paladina delle unioni civili per la legge che porta il suo nome, aveva definito “un disastro”: “Mi dispiace”, diceva Battaglia, “che Zalone non abbia considerato l’effetto che le sue parole avrebbero avuto su una fascia debole, come quella delle persone trans e delle prostitute. Il suo voleva essere un racconto sull’ipocrisia generale, ma inserire certi contenuti ha impedito qualsiasi ragionamento”. 

Non se n’è più parlato, da allora, né Zalone è diventato un “terf” per i critici internettiani, forse perché nel nostro paese il dibattito sul tema è ancora carsico: ci sono momenti di grande polarizzazione (vedi sul ddl Zan) e momenti in cui l’argomento si inabissa. Diventerà predominante? Ci sono segnali che portano in questa direzione, dice l’avvocato Giovanni Guercio, punto di riferimento per le battaglie legali Lgbt+. Guercio è la persona indicata dagli attivisti come colui che ha ottenuto un risultato importante per le persone transgender: il primo precedente giuridico che ha aperto la strada alla possibilità di ottenere la rettifica anagrafica senza doversi operare, come invece prevedeva la legge 164 del 1982, fino alla sentenza della Corte Costituzionale del 2015 che ha chiarito definitivamente, dice Guercio, le zone d’ombra della legge, dichiarando l’illegittimità costituzionale di quello che si configurava “come una sorta di Tso”, trattamento sanitario obbligatorio per il cambio sesso. Proprio giocando sull’interpretazione di quelle zone d’ombra, già nel 2011 Guercio aveva ottenuto, al tribunale di Roma, una pronuncia che andava in direzione della non necessità preliminare dell’intervento chirurgico, pronuncia poi cavalcata da altri giudici, fino a un evidente situazione “a macchia di leopardo”: in alcune regioni era diventato possibile cambiare sesso senza prima operarsi, in altre no. La sentenza della Consulta ha sancito il nuovo corso, come pure lo ha fatto la condanna dell’Italia presso la Corte europea dei diritti dell’uomo (a cui Guercio si era appellato, nel 2008, dopo che una sua cliente si era dovuta operare per ottenere la rettifica anagrafica). 

“Dove non arriva la legge, arriva il genitore”, dice dall’Australia Sara – che vive a Sidney con il marito francese e i due figli pre-adolescenti, di cui uno, il minore (undici anni) si è da poco dichiarato transgender. “E’ cominciato tutto molto presto”, dice Sara, “da quando io ricordi mio figlio dava segni di preferire giochi e abiti femminili. Poi, qualche mese fa, ci ha detto che non voleva essere chiamato con un nome da maschio. Noi ci siamo adeguati, la chiamiamo con un nome da donna e con il pronome ‘loro’, come vuole lei, ma abbiamo paura. Paura che questa zona pur tollerante della città non lo sia poi così tanto, paura che al liceo venga presa di mira, paura che qualcuno le faccia del male o che sia lei a farselo da sola. Vorrei fermare il tempo con le mani, perché capisca davvero che cosa vuole. Intanto aspettiamo, evitiamo il ricorso ai farmaci, deciderà lei-loro quando avrà-avranno diciotto anni”. “Lei-loro”: l’adeguamento lessicale nelle parole di un genitore può essere un freno razionale sulla strada della presa in carico dell’adolescente presso un centro specializzato, cosa che però, per altri genitori, come racconta Cinzia, la mamma di Greta, è invece un sollievo. La paura è la stessa, che i ragazzi e le ragazze soffrano, si danneggino. La soluzione è diversa. 
Ma che cosa succede quando non si è più minorenni, e si decide da soli? Parla una mamma di GenerAzioneD, associazione di genitori considerati dai sostenitori giustamente attendisti e dai detrattori inconsapevolmente transfobici. “Non siamo dei mostri, siamo solo preoccupati”, dice la madre, la cui figlia ora ventenne ha deciso di desistere lungo la via della transizione. La madre racconta che l’associazione è nata “dall’esigenza di trovare e scambiare informazioni che qui non si trovavano, e dal disagio provato da molti di noi di fronte ad alcuni psicologi che, dopo il coming-out dei ragazzi, adottano un approccio ‘affermativo’, basato sul rinforzo sull’auto-dichiarazione del paziente. Anche mia figlia, inizialmente si era rivolta a uno psicologo di questo tipo e voleva proseguire. Ti ho portata per mano fino a qui, le ho detto, ma  sei maggiorenne, ora sta a te”. Intanto, con i genitori conosciuti in rete, la madre ha cominciato a farsi domande: “Perché questa esplosione di dichiarazioni ‘sono transgender’ tra le ragazze? E perché proprio dopo il lockdown? Perché la scelta dei nomi dopo l’abbandono del dead name si dirige sempre verso un nome anglosassone?”. Da lì una mezza-certezza: “C’è stato, negli ultimi anni, un boom giovanile di chat e video su Tik tok e Instagram, a livello internazionale, in cui, come un tempo per l’anoressia, si spiegava con tono allegro come procedere verso la transizione di genere. Durante il lockdown molti di questi ragazzi sono stati incollati allo schermo tutto il giorno. Può essere un elemento”. Sua figlia ora, dice la madre, “accetta il suo corpo e sta con un ragazzo transgender. Con chi sta, in effetti? Questo mi domando. E, nella grande confusione, per evitare che giovani donne e uomini arrivino a mutilare parti del proprio corpo, dico che bisogna muoversi con cautela. Se uno è convinto benissimo, ma per arrivare alla convinzione bisogna dare tempo. Ci sono molti casi di ragazze in realtà gay o soltanto non conformi come look e gusti, avviati a un percorso di cui poi si pentono, come si vede in Inghilterra, dove c’è un movimento di ‘detransitioner’.  Nel caso di mia figlia una psicoterapia diversa, che ha indagato su altri traumi, è stata fondamentale. Da un’operazione non si torna indietro”. 

“Indietro non si torna”, ma nel senso opposto dell’orgoglio transgender, è anche il titolo del libro (ed.Tea, prefazione di Alessandro Zan) scritto da Monica J. Romano, consigliera comunale a Milano e attivista Lgbt+. Due lauree, un ex impiego nelle risorse umane, Romano ha detto a “Io Donna” che ciò che frena l’ascesa delle donne transgender è “un soffitto di cemento armato”, e che lei lotta perché non sia più così e perché chi si trova in un percorso di transizione si convinca che “una persona transgender può essere felice”. Ed è quello che cerca di trasmettere anche Lilith Primavera, “cantante nata maschio”, così si definisce mentre racconta la sua esperienza nella periferia romana, prima, e a Londra, poi, fino all’incontro con Ferzan Ozpetek che l’ha voluta nei panni di Vera nella serie Disney “Le fate ignoranti”. A giugno Lilith sarà in “Love club”, serie a tematiche giovanili di genere su Amazon Prime, con il pezzo “Amami”, elettropop sull’amore universale, per poi uscire, sempre a giugno, con un nuovo Ep. Tra la vita e la mise-en-scène , racconta la cantante, “c’è la voglia di far capire alle nuove generazioni, con i miei testi, che è possibile arrivare a nuovi equilibri”. 

“L’immensità della donna è la parte migliore dell’uomo che sono”, ha detto il regista Emanuele Crialese al festival del cinema di Venezia, nel settembre del 2022, presentando il film “L’Immensità”, film in cui racconta la storia di una “migrazione di un’anima” attraverso la sua storia personale di ex ragazzina in transizione verso il corpo di un uomo, e attraverso la storia di sua madre, in una casa allegra e triste come tante case anni Settanta, tra una canzone di Raffaella Carrà e una lite muta tra genitori. Per la scelta degli attori, Crialese ha deciso di non prendere un ragazzo transgender, per non interferire con un percorso magari incerto. L’attrice e regista Stefania Rocca ha fatto la scelta opposta per il suo “La madre di Eva”, spettacolo tratto dall’omonimo libro di Silvia Ferreri, finalista al Premio Strega nel 2018, in tour per ultime due date il 25 e 26 maggio a Lecce: ha cercato due ragazzi trans (che recitano a date alterne) per interpretare il coprotagonista in una storia di amore e dolore di un “ragazzo nato in un corpo femminile” e di una madre che si ritrova fuori dalla sala operatoria dove sua figlia sta per essere operata per l’intervento che la renderà uomo. Parla del “dialogo interrotto tra generazioni”, Stefania Rocca. “Il conflitto generazionale è qualcosa che tutti noi conosciamo bene”, dice: “Se torniamo alla nostra adolescenza ci rendiamo conto di quanto sia stato difficile poter trovare e rafforzare una propria visione e identità quando tutti spingevano per l’omologazione e quanta forza ci sia voluta per accettarsi e essere accettati”. Ogni generazione, dice l’attrice, “combatte con i divieti stabiliti da quella precedente. Ovviamente per un genitore che affronta il percorso di transizione con il figlio lo scontro può essere ancora più complesso, specie se non si hanno o non si cercano gli strumenti per orientarsi.  L’obiettivo dello spettacolo è di osservare le tematiche transgender dal punto di vista di chi ne è fisicamente coinvolto ed anche di chi, per ruolo, sente il dovere di proteggere ‘la sua creatura’, con il timore delle discriminazioni”. Avvicinarsi a quella madre, dice Rocca, e “al suo percorso interiore”, ha significato “toccare con mano come, a una transizione fisica del figlio o della figlia, corrisponda una transizione emotiva della madre. Un vero e proprio percorso che passa dal non voler vedere al negare, al cercare di fermare il processo a farsene una ragione pur non condividendolo, e alla fine accettare la scelta del figlio/figlia fino ad abbracciarla e comprenderla profondamente, servendosi dell’amore come bussola per orientarsi nella nuova realtà. Ho realizzato come a volte siano proprio i nostri figli a prenderci per mano e accompagnarci in una società che evolve e non dà tempo, ci spiazza e ci rende soli”. Voleva che lo spettatore potesse immedesimarsi emotivamente in entrambi i personaggi, Rocca. Nei tanti provini ho incontrato Bryan Ceotto e Simon Sjsti Aimone. “Abbiamo pianto, riso, urlato, ballato, in una condivisione che mi ha arricchito il cuore”. Bryan Ceotto, uno dei due interpreti, non può dire “di non aver vissuto giornate ‘normali’, in passato, forse per la sua stessa “incapacità di renderle tali”: “Direi, sintetizzando molti anni della mia vita, di essermi reso invisibile per la paura di non saper affrontare la società”, dice Bryan. “Mi sono sentito inesistente di fronte alla gente e, pur avendo scelto io stesso questa linea di mimetizzazione pubblica (la tipica ragazza cis etero), questo mi ha recato molta sofferenza, più di quanto ne abbia fatto la discriminazione post coming out. Il coming out è stata una presa di coscienza coraggiosa, e la mia determinazione e accettazione non potevano essere lese da commenti di cattivo gusto. Ero felice, cos’altro potevo desiderare?”. E alla fine tutti, madri e figli, dicono la stessa cosa: considerateci per tutto quello che facciamo di giusto e sbagliato, oltre “quel dettaglio”, il fatto stesso di vivere una realtà transgender. 


 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.