Wikimedia Commons

La riflessione

Se una cagnolina avvicina ai misteri della vita divina più di anni di studio

Guido Vitiello

Martin Lutero percorreva e ripercorreva le Scritture, specie l’Apocalisse, nell’ansiosa ricerca di un appiglio per quella speranza a cui non sapeva rinunciare: la salvezza finale del suo volpino di Pomerania, Tati

L’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità o è una verità e mezza. Seguendo la bussola infallibile di Karl Kraus, è facile orientarsi davanti a motti perentori come questo di Sergio Quinzio, che si trova in uno dei suoi libri più cupi – Dalla gola del leone – e che mi pare un caso di scuola di mezza verità: “Guardate gli occhi di un cane che muore, e vergognatevi della vostra presuntuosa teologia”. E sia, ma reclamo l’altra mezza verità, e se possibile l’altra mezza ancora. Non vedo infatti perché non dovremmo vergognarcene ugualmente, e forse di più, davanti agli occhi di un cane che scodinzola felice. Chi visitasse la cattedrale di Strasburgo troverebbe accucciato ai piedi del pulpito, con il musetto che spunta tra le zampe, un piccolo cane scolpito. Era l’inseparabile cagnolino di Johann Geiler, il sommo predicatore tedesco del Quindicesimo secolo, nonché il più spiritoso e gioviale (fu tra i sostenitori di una consuetudine pressoché dimenticata, il risus paschalis, un inciso liturgico d’improvvisazione comica e carnevalesca calato nelle celebrazioni pasquali). Geiler volle eternare così il sonnecchiante scudiero dei suoi esuberanti sermoni.

 

Ebbene, non m’intendo di benedizioni né voglio insegnare a Bergoglio come si fa il Papa; so però che non conosco un solo padrone di cane disposto ad accettare l’immagine di un paradiso da cui i cani siano esclusi. La promessa rassicurante di Martin Lutero a Tölpel, il suo volpino di Pomerania – “anche tu nella resurrezione avrai una piccola coda d’oro” – è forse apocrifa, ma un libricino postumo del paleografo gesuita Malachi Martin, A Priest and his Dog, documenta lo stesso rovello con un sovrappiù di strazio teologico ed esegetico. La cagnolina Tati, diceva Martin, giocherellando lo aveva avvicinato ai misteri della vita divina – non astrattamente ma in re, secondo il gergo della scolastica – più dei suoi diciotto anni di studi. “Non posso immaginare neppure per un momento”, scriveva Martin sconsolato dopo la morte della piccola cairn terrier, “che il mio Dio meraviglioso e adorabile, il Deus Faber di Ignazio, il Padre che veglia su ogni passero che cade dal tetto, dopo aver creato qualcosa di spiritualmente bello come l’anima di Tati possa sbarazzarsene, utilitaristicamente, e lasciarla rotolare nel non essere, nel nulla”. Il dotto gesuita percorreva e ripercorreva le Scritture, specie l’Apocalisse, nell’ansiosa ricerca di un appiglio per quella speranza a cui non sapeva rinunciare: la salvezza finale di Tati. Era come Yudhistira che rifiuta di salire sul cocchio di Indra, nel Mahabharata, se il dio non gli concede di portare con sé il proprio cane. E in effetti, la coappartenenza misteriosa di uomini e cani – un solo destino, che sia di salvezza, di dannazione o di estinzione – sembra precedere le ramificazioni delle teologie positive. Uno dei più bei libri dedicati ai cani, Dog di Patricia Dale-Green, riportava quasi sessant’anni fa una leggenda di origini non specificate: dopo la Creazione, un crepaccio cominciò ad aprirsi tra Adamo e le bestie che aveva appena nominato. Tra queste c’era un cane, che guardava la voragine sempre più larga, e che all’ultimo momento, quando la separazione era ormai quasi compiuta, balzò spericolatamente oltre il crepaccio per mettersi al fianco dell’uomo. In fondo, desiderando la vita eterna o qualunque altra grazia per i nostri cani non facciamo che ricambiare la generosità temeraria di quel balzo all’origine dei tempi. Chiederne la benedizione non è un vezzo da signorine snob, è qualcosa di cui proprio non possiamo fare a meno.

Di più su questi argomenti: