Justin Sullivan / Getty Images

Come ride l'Italia

La stand-up comedy sa ancora far ridere, in barba alla correttezza

Saverio Raimondo

La satira deve essere ambigua: il pubblico ride perché non sa di cosa sta ridendo. Le comicità negli ultimi anni è cambiata, ma il politicamente corretto non ha vinto. Anzi

Da un po’ di tempo la domanda che mi viene rivolta più spesso durante le interviste è se e come “il politicamente corretto” ha influenzato o cambiato il mio lavoro di comico – che poi altro non è che il rifacimento con termini aggiornati della domanda “qual è il limite della satira?” che veniva posta ai tempi delle vignette su Maometto, “Je Suis Charlie” etc. Domanda – quella attuale – che spesso viene declinata anche sotto forma di “è vero che non si può più dire niente?” oppure “si può ancora ridere di tutto?”, con un tono che oscilla fra l’annoiato e il paranoico a seconda della testata. Non che mi sia mai mancata la risposta a queste domande; ma durante il mio ultimo spettacolo di stand-up comedy, che ho portato in giro per i club italiani nel mese di marzo, ho deciso che a rispondere sarebbe stato il pubblico stesso, con le sue reazioni, dal vivo. Un pubblico geograficamente variegato (da Pisa a Milano passando per Roma, Torino, Napoli, Bologna, Bari, Perugia…) a cui ho sottoposto un’ora e un quarto di materiale nuovo dove ho spinto il mio senso dell’umorismo un po’ più in là, cercando come sempre di alzare l’asticella: e quindi oltre alle battute sul fisco e sulla pizza gourmet – e a un rinnovato repertorio di battute sulla mia statura non esattamente longilinea e sulla mia voce non esattamente attraente (“non è facile vivere con questa voce: tutte le volte che sotto le stelle provo a sussurrare parole romantiche all’orecchio di una ragazza vengo scambiato per un acufene”) – ho trattato con ironia e in chiave paradossale temi come l’handicap (o meglio: il suo tabù e la retorica con la quale viene trattato), la malattia (o meglio: il suo spauracchio), la body positivity, la violenza verbale, la vita sessuale contemporanea. Non da ultimo – anzi, in scaletta era il brano d’apertura dello spettacolo – ho fatto battute provocatorie sul governo Meloni e “il ritorno del fascismo”. Insomma, ce n’era abbastanza per alzarsi in piedi e andarsene – stando almeno a una certa narrazione. Ma la realtà (ancora una volta) si è dimostrata molto diversa dall’algoritmo dei social: non solo gli spettatori non uscivano dalla sala durante le mie provocazioni, ma nessuno nemmeno mi ha schiaffeggiato – non che io sia Chris Rock né in sala vi era Will Smith; ma in epoca di mitomania di massa, non si può mai sapere chi si crede di essere chi.

 

Ma andiamo per ordine. Dopo le prime battute d’apertura, il mio spettacolo entra nel vivo con la parte dedicata alla satira politica (“devo farla” spiego al pubblico, “me lo impone il mio codice Ateco da comico satirico”). E quando faccio notare che Meloni vuole essere chiamata “il” e non “la” presidente del Consiglio perché sta affrontando un percorso di transizione da donna a uomo, da femmina a maschio, presto si farà anche chiamare Giorgio, dalla voce si sente che sta già prendendo gli ormoni, il pubblico matematicamente ride. Ride di Giorgia Meloni e delle battaglie lessicali di sinistra? Quella è una battuta transofobica o antifascista? Il punto è proprio questo: ridono perché non sanno a cosa stanno ridendo, e questo li libera – dalla retorica, dai pregiudizi, da una certa pressione sociale – e possono finalmente divertirsi. La satira deve essere ambigua, e io sul palco cerco di confondere il pubblico e di prenderlo alle spalle, o sotto la cintola, o entrambe le cose (cioè di prenderlo per il culo); è così che lavoro. Non sono il Censis; ma a suo modo il pubblico che viene a vedere un mio spettacolo è un campione statistico interessante. Sono persone di un’età compresa fra i venti e i settant’anni; tanti maschi quante femmine; estrazione sociale variegata; livello d’istruzione – a occhio – medio alto (perché l’abito non fa il monaco, ma qualche informazione su di te la fornisce lo stesso).

 

Questa varietà di pubblico la devo al mio essere “multipiattaforma”: fra chi viene ad assistere a un mio spettacolo dal vivo c’è chi mi ha visto su Netflix, chi in tv, chi mi ha sentito in radio, chi mi legge su questo giornale. Non ho idea per chi votino le persone che ridono davanti a me, né se votino. Un tempo lo spettacolo dal vivo di un comico satirico sarebbe stato un ritrovo per gente di sinistra tanto quanto la piazza di uno sciopero, un concertone del 1 maggio, un dibattito alla Festa dell’Unità; ma oggi, il pubblico che vedo ai miei spettacoli e in generale alle serate di stand-up comedy non mi sembra possa essere inscatolato politicamente tanto facilmente. E’ sicuramente un “ceto medio riflessivo”, ma nel 2023, cioè eroso economicamente e socialmente, e con una capacità riflessiva compromessa dall’abbassamento della soglia dell’attenzione. Io poi, che in tv ho fatto battute in programmi di Sabina Guzzanti come di Gianluigi Paragone, da Bruno Vespa come da Massimo Gramellini, sono quanto di meno identitario ci possa essere. Insomma, non è detto che siano “di sinistra” quelli che ridono alle mie battute su Giorgia Meloni. Ma se lo sono, comunque sono autoironici: sul palco faccio un’invettiva contro gli elettori di sinistra – sempre delusi, sempre traditi, al punto tale che sono certo che anche i dirigenti del Pd nel segreto dell’urna hanno votato Giorgia Meloni per fare un dispetto agli insopportabili elettori di sinistra – e il pubblico ride. Ride persino a una battuta su Elly Schlein – battuta a sfondo sessuale, lo ammetto: ma del resto non è colpa mia se di Elly Schlein conosciamo più la vita sessuale che il pensiero politico. Vero è che quando chiedo “Chi fra voi ha votato Giorgia Meloni? Per alzata di mano...” – e la mano alzata è la destra, e con tutto il braccio, insomma ci siamo capiti – nessuno si autodenuncia, tutti ridono e basta. Solo a Napoli un uomo ricambia il mio saluto romano: eccolo, finalmente, un elettore della Meloni! Ma ride anche lui, e anche lui sta al gioco. Quello che so, da nord come a sud, è che in Italia il pubblico non cerca più la satira politica; anzi pensa proprio di non volerla, “che palle”, gli sembra una cosa vecchia, un retaggio; tanto da condividere l’ironia con la quale io sbuffo del dover fare certe battute. (Del resto, se la gente manco va più a votare, figuratevi se ha considerazione della satira politica; la disaffezione dalla politica è nei confronti di tutto il discorso pubblico annesso e connesso, vignette e battute comprese). Poi però quando questo stesso pubblico si trova davanti alla satira politica, e se questa è spiazzante, non propagandistica, fuori dagli schemi, si sorprende a riderne forte.

 

Faccio stand-up comedy dal 2009; e in più di dieci anni le risate del pubblico le ho sentite cambiare. All’inizio erano le risate complici di chi godeva delle provocazioni e degli eccessi (allo stesso tempo, c’era chi si alzava e se ne andava); oggi invece di fronte alle battute più estreme nessuno si scandalizza più, semmai si sorprendono di riderne ancora. Sento, durante le battute più scorrette, il pubblico ridere di una risata liberatoria, di sollievo; ma non so se ridono più per la battuta in sé o per il fatto che ci sia ancora chi faccia certe battute (cioè io), forse ridono di entrambe le cose. Di certo, gli invalidi si sbellicano dalle risate quando nel mio spettacolo affronto il tema dell’handicap – con battute su Alex Zanardi, su Bebe Vio, e sull’uso un po’ vintage delle parole “mongoloide” e “spastico”. Durante il tour mi sono capitate fra il pubblico tre persone in sedia a rotelle; e a Milano un ragazzo con un handicap alla mano. Non solo hanno riso quanto se non più di tutti gli altri in sala; ma mi erano anche grati – come, mi hanno scritto poi con messaggi privati sui social. Grati di non essere esclusi, di non essere trattati con retorica, di essere coinvolti dal sottoscritto come complici. Ridere insieme, delle stesse cose, può fare branco o comunità; quando, come nel caso dei miei spettacoli, stiamo tutti ridendo di noi, l’effetto è una via di mezzo fra una terapia di gruppo e un nuovo patto costituente.

 

Dunque si può ridere di tutto? E i woke? Qualcuno alla fine c’è: ma uno soltanto, uno di numero, come gli elettori di Giorgia Meloni. Dopo lo spettacolo di Roma, @thestroke82 mi scrive su Twitter: “abbiamo riso molto allo spettacolo al Monk di ieri sera, peccato per la parte di lagna sul politically correct e battute abiliste a seguire che hanno, tra l’altro, automaticamente rimosso la ragion d’essere della lagna”. Come sempre in questi casi, delle due l’una: o c’è analfabetismo (il non saper leggere l’ironia, il paradosso, l’iperbole) o malafede. Ammesso che il mio spettacolo sia contro qualcosa, è proprio contro la lagna sul politicamente corretto (ridicola quanto la cancel culture): smettetela di dire che non si può più dire niente, piuttosto dite tutto quello che avete da dire. Che è esattamente quello che io faccio sul palco, e con grande allegria: un esercizio festoso di libertà d’espressione. Chi fraintende ci è o ci fa proprio perché il mio discorso è volutamente, dichiaratamente, fraintendibile: è il gioco della satira. A prendere sul serio quello che dico fai più ridere tu di me, perché ti copri di ridicolo. Ma non dedicherei più di un paragrafo a questa “categoria dello spirito”, esattamente come all’elettore della Meloni: sono tipologie sociologiche molto più teoriche che pratiche.

 

Il tema semmai che ancora si sente essere irrisolto è quello del sesso. Da sempre divide l’Italia: al nord ne ridono sguaiatamente, al sud ho sempre incontrato una maggiore timidezza, ritrosia – tranne in Puglia, l’Emilia-Romagna del sud. C’è sempre materiale sul sesso nei miei spettacoli; e anche in pezzi dedicati ad altro, spesso le mie battute hanno riferimenti sessuali. Sono freudiano. E anche in questo mio nuovo spettacolo c’era materiale nuovo sull’argomento: un brano era dedicato alla tendenza globale (ma soprattutto occidentale) a non fare più sesso, o sempre di meno. Quando parlo di sesso pratico il cattolicesimo: come Gesù, mi faccio corpo e mi sacrifico, cioè uso me stesso come filtro per ridere delle nostre frustrazioni e perversioni sessuali, personalizzando e riportando alla mia dimensione privata concetti ed esperienze; e questo consente al pubblico di lasciarsi andare e riderne serenamente. Poi però, al termine dello spettacolo, “si rivestono”: una ragazza mi ha scritto un messaggio privato sui social per dirmi che secondo lei l’unico difetto dello spettacolo è che parlo troppo di sesso; quando le faccio notare che in realtà si tratta di un solo brano dedicato al tema, e di una decina di minuti in mezzo a uno spettacolo che ne dura settantacinque, lei ammette la svista e commenta “sarà la primavera” (e m’invita a bere). Una giornalista invece, nel recensire lo spettacolo, dice che ci sono tante battute sul sesso “fulcro comico un po’ anni 90”: e nel ritenere il sesso datato non fa che dare ragione alle statistiche sul calo della libido e alla mia ironia sulla nostra ridicola castità contemporanea. Entrambe avevano assistito alla replica milanese del mio spettacolo; nessuna obiezione invece dopo le mie performance meridionali. Che ridere del sesso sia improvvisamente diventato un problema più al nord che al sud? Sarà la primavera.