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È in tempi come questi che bisognerebbe puntare tutto sulla famiglia

Sergio Belardinelli

Nel passato il compito socializzante della comunità familiare era una sorta di automatismo; oggi può dipendere soltanto da una rinnovata consapevolezza e responsabilità da parte dei genitori. Equivalenti funzionali non ne esistono

La locuzione “famiglia tradizionale” suscita reazioni emotive sfavorevoli. Almeno al primo sguardo, l’aggettivo “tradizionale” rinvia infatti al passato, alla famiglia di ieri: la cosiddetta famiglia “estesa” con molti figli, i nonni che vivono sotto lo stesso tetto, una rigida ripartizione dei ruoli, una marcata subordinazione della donna, relazioni intergenerazionali abbastanza lineari e funzioni sociali pressoché scontate, svolte secondo una sorta di automatismo. Oggi questo tipo di famiglia non esiste più, Cambiamenti importanti si sono verificati sia nella sua struttura, sia nelle sue funzioni, sia soprattutto nelle sue forme. Se ieri Levi Strauss poteva definire la famiglia come “l’unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli”, oggi nessuno si accontenterebbe di questa definizione. Troppo riduttiva “l’unione di un uomo e una donna”.  Sta di fatto, però, che continua a gravare su questo tipo di famiglia e su quelle cosiddette monogenitoriali una funzione sociale decisiva in ogni tempo e in ogni società: la socializzazione dei nuovi venuti, la cosiddetta socializzazione primaria.

 

Sorprende dunque non poco il disinteresse per la famiglia come istituzione sociale che riscontriamo nella cultura e nella politica contemporanee. A volte sembra addirittura che la si voglia ridurre a un semplice arrangiamento individualistico. Eppure mai come oggi la qualità delle relazioni familiari è stata tanto decisiva per il benessere e la felicità degli individui e della stessa società. Più la società si fa individualista, pluralista, eticamente neutra, lasciando che gli individui decidano da soli del proprio bene e della propria felicità, e più si fa pressante l’esigenza di un “luogo” dove le relazioni umane siano improntate alla gratuità, al dono, a un amore che coinvolga la totalità della persona. 

Una società pluralista e liberale non può vivere di rapporti esclusivamente contrattuali. I contratti sono certo il segno di una conquistata autonomia e libertà; lo stesso si può dire delle leggi, la legittimità delle quali non scaturisce più dall’alto, come avveniva nel passato, bensì dalla libera discussione e dall’accordo degli interessati. Tuttavia, non si può dimenticare che, affinché la discussione e gli accordi contrattuali possano aver luogo, c’è bisogno che la società sia pervasa da uno spirito particolare – fatto di fiducia, senso del bene comune, tolleranza, responsabilità, reciprocità – che non può essere prodotto per via contrattuale, ma soltanto attraverso quel lento processo di socializzazione che inizia proprio nella famiglia e continua poi nella scuola e in tutte le altre istituzioni e relazioni sociali. 

 

C’è stato un tempo in cui le relazioni familiari, sia quelle tra i coniugi, sia quelle tra genitori e figli, seguivano una sorta di rigida armonia prestabilita: era chiarissimo a tutti come ci si dovesse comportare. “L’uomo deve essere marito, padre e soldato” scrive nel suo diario Antonietta (Sofia Loren), la protagonista di “Una giornata particolare” di Ettore Scola. E quando Gabriele (Marcello Mastroianni) le dice di non essere nessuno dei tre, lei gli molla uno schiaffo per la delusione. Quanto alla donna, essa doveva essere moglie, madre e custode del focolare domestico. Punto. Da una differenza biologica, quella tra maschi e femmine, si deducevano precisi ruoli sociali, con tutte le conseguenze che conosciamo, molte delle quali inaccettabili. Di passaggio faccio notare che oggi stiamo forse esagerando nella direzione opposta, tendente a considerare del tutto indifferente l’elemento biologico, ma non è questo il punto. Senza alcuna nostalgia per gli automatismi e le relazioni gerarchiche e sessiste di una volta, ciò che qui conta e preoccupa è piuttosto la crescente difficoltà della famiglia a mediare tra individui e società, tra autorealizzazione individuale e responsabilità sociale. 

 

In effetti, stando alle ricerche sociologiche di questi ultimi anni, sembrerebbe che stiamo entrando davvero in una società “postfamiliare”, fatta per lo più di individui “autosocializzati” (a pensarci bene, una contraddizione in termini). La tendenza a ridurre la famiglia a un fatto eminentemente privato, a una sorta di cellula primaria della vita individuale, anziché sociale, sembrerebbe indiscutibile. Ma a questo punto occorrerebbe anche domandarsi seriamente quale altra agenzia socializzante ha preso il posto occupato dalla comunità familiare per tanti secoli. La socializzazione è impossibile senza un forte senso di appartenenza tra il bambino e uno o più adulti “significativi”.

A maggior ragione quando si tratta di introdurre i nuovi venuti a una cultura dell’autonomia, della libertà, della responsabilità, della tolleranza, della fiducia, della cura come risorse indispensabili a una società, quale è la nostra, che vuole essere pluralista, democratica, rispettosi degli uomini e dell’ambiente. Nel passato il compito socializzante della famiglia era una sorta di automatismo; oggi può dipendere soltanto da una rinnovata consapevolezza e responsabilità da parte dei genitori; sarebbe davvero il colmo che ci rinunciassimo semplicemente perché la società sembra disinteressarsene o perché è diventato troppo impegnativo. Si sappia che in giro non ci sono equivalenti funzionali di sorta.  

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