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l'analisi

Cosa resta dell'anniversario della marcia su Roma? La nostra percezione della storia

Giovanni Belardelli

Le ricorrenze sono diventate ormai l'unico modo perché gli eventi del passato entrino nel discorso pubblico, i quali interessano molto poco alla nostra società dal momento che viviamo in un eterno presente

A nessuno può essere sfuggito quanto negli ultimi tempi si sia parlato di storia del fascismo con una valanga di articoli sulla stampa, trasmissioni televisive, dozzine di volumi sollecitati dal centenario della marcia su Roma (e perciò, temo, difficilmente destinati a essere indimenticabili). Certo, si trattava di un evento che è stato decisivo per il nostro paese, ma passata ormai la ricorrenza ce ne importerà assai meno. Ed è probabile che tra poche settimane, quando a gennaio saranno novant’anni dall’ascesa al potere di Hitler, ci scopriremo tutti molto interessati invece alle vicende del nazismo. E così via, ricorrendo (e ricordando). Il fatto è che l’anniversario – cioè una circostanza casuale – pare diventato ormai la modalità principale, spesso l’unica, con cui la storia entra nel nostro discorso pubblico. E tralascio le polemicucce – per lo più su fascismo e antifascismo – che piegano il riferimento storico a un immediato uso politico.

 

In realtà, al di là delle ricorrenze e della sovrarappresentazione mediatica di un avvenimento che queste momentaneamente producono, mi pare che la storia stia diventando sempre meno rilevante e che la stessa percezione del passato stia progressivamente svanendo. Non solo a causa di una diffusa ignoranza in materia, tra i giovani come tra gli adulti, tra le persone comuni come tra le élites; ma anche, e soprattutto, per certe trasformazioni culturali profonde nelle quali siamo immersi. Del resto, anche il modo di considerare la storia ha, per così dire, una sua storia, tant’è che negli ultimi secoli non si è guardato al passato sempre allo stesso modo. In un dipinto come “Tarquinio e Lucrezia” di Tiziano, ad esempio, vediamo il nobile romano con indosso vestiti rinascimentali. Questo accade perché, secondo il “regime di storicità” dell’epoca, che riprendeva la vecchia concezione dell’historia magistra vitae, il passato fornisce modelli per il presente, entrambi vengono abbracciati in un orizzonte storico comune.

 

Questo modo di guardare al passato cambia a un certo punto radicalmente. Consideriamo un dipinto di soggetto storico realizzato da Francesco Hayez nel 1846, “I vespri siciliani”. I personaggi vi sono raffigurati con i vestiti del loro tempo, il XIII secolo, e non con quelli in uso a metà '800. Come mai i pittori del ’500 mettevano i propri vestiti indosso ai personaggi del passato e tre secoli dopo non lo si faceva più? I motivi sono vari, ma il principale è che in mezzo c’è stata la Rivoluzione francese che ha respinto l’idea di un carattere paradigmatico degli eventi storici, di una compresenza di passato e presente, e si è volta spavaldamente verso il futuro. Nasce così la concezione specificamente moderna del tempo e della storia, come osservò vari anni fa Reinhart Koselleck. 

 

Ma ritorniamo al presente. Koselleck scriveva negli anni 70: da allora molte cose sono cambiate ed è certamente mutato di nuovo il nostro modo di guardare al passato. Pensiamo ad esempio a quanto la fine del comunismo, cioè di un’ideologia costruita attorno a un’idea forte della storia e alla pretesa di sapere dove quest’ultima ci avrebbe condotto, ha contribuito ad alterare il rapporto con il tempo: “La storia – scrisse François Furet nel 1995 – ridiventa un tunnel dove l’uomo entra nel buio, senza sapere dove lo porteranno le sue azioni, incerto sul proprio destino, privo dell’illusoria sicurezza d’una scienza di quello che fa”. Il futuro si è fatto opaco e preoccupante: la secolarizzazione ci priva della fiducia in un avvenire di salvezza nell’aldilà, la crisi ambientale ci pone davanti alla possibilità di un’apocalisse terrena, la prosperità e il benessere ottenuti dopo il 1945 appaiono oggi precari e probabilmente irraggiungibili dalle generazioni future. Anche il nostro modo di guardare al passato è cambiato. Con il diffondersi di Internet e dei social media viviamo sempre più in una nuova dimensione esperienziale e cognitiva, quella del presente, di un presente eterno, assoluto, in cui la storia svanisce e ogni distinzione temporale sembra annullarsi nell’istante che assorbe tutto. Se tanti studenti ormai confondono i secoli e perfino i millenni non è, o non è soltanto, perché non hanno studiato, ma perché da nativi digitali vivono immersi in questa nuova dimensione della temporalità, nel flusso continuo della rete e dei social. 

 

Tra costoro possiamo certo collocare i giovani inglesi che, secondo un sondaggio di poche settimane fa, hanno in maggioranza un’opinione negativa di Winston Churchill perché lo considerano un colonialista. Sarebbe facile obiettare che la loro è una valutazione anacronistica, visto che il colonialismo – totalmente inaccettabile oggi – è stato a lungo parte della cultura europea, inclusa quella di sinistra: Marx ed Engels, nel “Manifesto del partito comunista”, lodavano la borghesia perché “trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare”. Ma una simile obiezione sarebbe inutile: nel nuovo regime di storicità che si va affermando, e che assume forme particolarmente radicali soprattutto nel mondo anglosassone, la distinzione tra passato e presente tende ad annullarsi e Churchill viene chiamato a rispondere delle colpe che, secondo i nostri criteri di oggi, avrebbe commesso.

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