(foto di Ansa)

ombre nere

Il paradigma del fascismo in agguato è una costante

Giovanni Belardelli

Il ritorno dei fascisti è ciclicamente agitato dalle sinistre fin dai tempi del Pci. Patologie italiane sempre attuali e dure a morire

A cento anni dalla marcia su Roma, si annunciano vari convegni sul fascismo. Ma, a giudicare da qualche programma che è cominciato a circolare, ho l’impressione che nessuno di essi si occuperà del tema che forse è il più rilevante, almeno se consideriamo il fascismo in relazione alla storia dell’Italia repubblicana, e certamente il meno studiato: la sua lunga vita postuma, la straordinaria capacità di sopravvivere alla rovinosa fine del 1945. Non mi riferisco a certe frange di estrema destra rimaste sempre minoritarie, bensì al fatto che per vari decenni – dunque per un periodo ben più lungo del fatidico “ventennio” – il fascismo ha occupato uno spazio rilevante nel nostro discorso pubblico, come denuncia del pericolo di un suo ritorno se non addirittura come critica di qualcosa che non era mai veramente scomparso.

 

Non era mai veramente scomparso, si sosteneva, perché le sue vere radici affondavano nel sistema economico capitalistico, sicché solo eliminando quest’ultimo ci si sarebbe potuti liberare, davvero e per sempre, del fascismo. Fu il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti che, appena arrivato in Italia da Mosca nella primavera del 1944, aveva impostato in questi termini un discorso che poi tutti gli esponenti del partito avrebbero ripetuto per anni. Questa spiegazione, che collegava il fascismo alle forze economiche e in particolare agli interessi del grande capitale, permetteva ai comunisti di attribuirsi una posizione unica nel panorama politico italiano: se un ritorno del fascismo era sempre in agguato perché il fascismo stesso era legato a filo doppio all’economia capitalistica, allora solo i comunisti – in quanto combattevano per una nuova economia di tipo socialista – potevano essere davvero antifascisti e  perciò genuini difensori di una democrazia esposta al pericolo fascista.

 

Non potendo vantare credibili credenziali democratiche, il Pci staliniano cercava di sostituirvi quelle antifasciste. Oggi è (quasi) generalmente riconosciuto che non tutti gli antifascisti erano democratici; il Pci, invece, si attribuiva la facoltà di stabilire quali democratici fossero davvero antifascisti e quali no; ove fossero su posizioni anticomuniste, venivano immediatamente bollati come fiancheggiatori di un fascismo di ritorno. In quest’ottica, poteva succedere che Togliatti paragonasse nel 1946 Giuseppe Saragat a Turati, ma non al noto leader del socialismo riformista, bensì all’Augusto Turati che era stato segretario del Pnf. Poteva accadere che i comunisti, dopo essere stati allontanati dal governo De Gasperi nel 1947 e dopo aver poi subito la sonora sconfitta elettorale del 18 aprile 1948, accusassero la Dc d’essere diventata, in quanto anticomunista, né più né meno che fascista.

 

Diffusasi nell’ambito della sinistra comunista alla metà degli anni 40, l’idea di un pericolo fascista costantemente presente, e la connessa denuncia di “clerico-fascismo” rivolta alla Dc, sarebbero state ripetute in modo martellante nel corso degli anni 50. Se ne potrebbero fornire infiniti esempi, ma forse è più interessante ricordare come si trattasse di un tema polemico condiviso anche al di fuori dei confini del Pci. Oltre ai socialisti, furono in particolare certi ambienti intellettuali gobettiano-azionisti ad alimentare l’idea di un pericolo fascista sempre attuale, affiancando alla motivazione comunista (l’economia capitalistica come matrice del fascismo) una considerazione di tipo politico-antropologico: se il fascismo era stato – secondo la celebre definizione di Gobetti – l’autobiografia della nazione, se si era alimentato di tutti i peggiori umori della società italiana, non poteva scomparire tanto facilmente, come appunto aveva scritto Carlo Levi già nel 1945 (dunque mezzo secolo prima di Umberto Eco) denunciando in Cristo si è fermato a Eboli “l’eterno fascismo italiano”.

 

Certo, la denuncia di un pericolo fascista non fu in quei decenni un fenomeno solo italiano: si pensi a quanti in Francia considerarono la Quinta Repubblica di De Gaulle come una nuova forma di fascismo; o anche alla Germania ovest, in cui Theodor Adorno negli stessi anni vedeva presenti “i presupposti sociali oggettivi che hanno prodotto il fascismo”. Solo in Italia, tuttavia, questo tema ha percorso un buon tratto della storia repubblicana, sia pure attenuandosi a partire dagli anni 60 e assumendo forme sempre nuove. Quello che andava combattuto, scriveva ad esempio Nuto Revelli nel 1975, era “il fascismo dei colletti bianchi”, quello che si nascondeva nelle istituzioni democratiche; anzi, “sono i fascisti che si vestono da antifascisti i fascisti più pericolosi”. Queste ultime parole risentivano del clima di allora, quando soprattutto la sinistra extraparlamentare giudicò le stragi di quegli anni come la prova evidente di una “fascistizzazione dello stato”, che molti (non Revelli, certo) pensarono andasse combattuta con una reazione uguale e contraria, in forme che andavano dall’antifascismo militante alla lotta armata. Perfino molti storici si allinearono diligentemente alla denuncia del pericolo fascista, nonostante tale denuncia – negando ogni storicizzazione del fenomeno – venisse per ciò stesso a negare i fondamenti della loro professione.

 

L’ultima significativa riproposizione della denuncia di un pericolo fascista si verificò nel 1994 dopo l’arrivo di Silvio Berlusconi al governo, che non pochi intellettuali giudicarono come esempio di un regime autoritario di nuovo tipo, fondato sulla manipolazione degli elettori attraverso il controllo della tv. Oggi, come un limone troppo spremuto, il paradigma del fascismo in agguato sembra ormai aver esaurito qualunque ulteriore possibilità di utilizzazione. Ma non è detta l’ultima parola.