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L'inganno delle community

Con un pugno di follower sei già un influencer. O così vogliono farti credere

Fabiana Giacomotti

Basta un piccolo numero di appassionati digitali. O almeno così dicono certe agenzie di furboni in cerca di polli da spennare. Per sentirsi più vicini alle star. Intanto i grandi brand mettono in discussione la loro presenza social

"Saresti carina a informarne anche la tua community”, lancia per telefono la giovane pr, anzi account manager come usa adesso, in merito a un certo servizio di distribuzione di moda del quale mi ha appena inviato il comunicato stampa. Fra i tanti aspetti negativi delle consuetudini che ignora, questo sarebbe anche un modo surrettizio per invitarmi a fare pubblicità digitale gratuita al suo cliente, attività che il mio Ordine di riferimento, per quanto non viva la propria stagione più brillante, troverebbe certamente il tempo di disapprovare con una lettera di richiamo (hai sempre in giro qualche amico pronto alla delazione modello Barnaba della “Gioconda”). Per chiudere la questione e ribadire la mia assoluta inutilità alla sua causa, ribatto con le scarse migliaia di follower dei miei account, tutti privati, ingresso a richiesta, utili soprattutto per sapere che cosa facciano gli amici veri, se magari si trovino al mare o al lago in quel certo weekend, dai troviamoci per una pizza. Le spiego, insomma, che uso i social come estensione del modello “compagnia” che andava negli anni Ottanta e che adesso non va più perché i ragazzi usano appunto gli smartphone per cercarsi e darsi appuntamento (spesso, anzi, si danno appuntamento direttamente sugli schermi, fra un po’ manderanno gli avatar), e per ripostare i servizi televisivi e gli articoli, non solo i miei ma tutti quelli che ritengo interessanti per la mia microbica community. 

 

Dopo la sbornia degli anni passati, quando si postava tutto per chiunque e per allegria e la sia è pagata mediamente cara (“ho visto quella certa lampada sulla tua scrivania, l’hai ereditata o è un acquisto recente?”, scrivevano perfetti sconosciuti con il tono affettuosamente impiccione dell’amico d’infanzia prima di lanciarsi magari in apprezzamenti su tua figlia, sui tuoi viaggi, su qualunque faccenda anche vagamente privata, mettendoti addosso un po’ d’ansia, oddio questo che cosa vorrà?), negli ultimi tempi solo chi fa l’influencer per mestiere o gli account dei brand che devono farlo per forza non ha applicato qualche filtro di privacy ai propri account. Qualcuno che ha molta visibilità e ottimi uffici stampa per le proprie attività ne è addirittura uscito, lasciando il compito di sbrigarsela con le relazioni agli specialisti che postano solo immagini utili all’incremento del business o della stessa community (seguire l’account del marchio di cui compriamo cinture e borsette o della squadra del cuore non significa entrare a casa del centravanti o del direttore creativo, dai commenti però non si direbbe). Oppure, modello Massimo Giorgetti di MSGM, e in genere tutti gli intelligenti, c’è chi posta solo oggetti che gradisce, foto di paesaggi scattate da lui, attività altre e mai la propria vita privata, tantomeno doni brandizzati o foto dei viaggi di lavoro, davvero il minimo della vanità. 

 

Molti nei social non sono mai nemmeno entrati, non c’è nessun vero potente che abbia un account personale, domandatevi perché, eppure continua ad avere una vita sociale. La gentile signorina però non demorde, anzi rispolvera la vecchia faccenda dei micro-influencer e delle micro-community che valgono tanto oro quanto pesano, che è un po’ come quando madri di successo e del tutto assenti vendono in intervista alle riviste femminili la storiella del quality time, il tempo di qualità, ovvero meglio una madre un’ora al giorno che “vista” i compiti e legge le favole della buonanotte per bambine ribelli rispetto alla genitrice a tempo pieno che si lamenta tutto il giorno, salvo scoprire che in loro assenza i figli delle ore preziose chiedono asilo e conforto alle madri a tempo pieno dei compagni di classe. 

 

Dunque, la micro-community: per un qualche calcolo ignoto, visto che i tassi di conversione sulle vendite non sono chiari nemmeno per gli influencer oltre il milione di follower – e da qualche tempo anche le aziende iniziano a chiedersi se valga la pena di sponsorizzare “stories” da trentamila euro l’una, in particolare su TikTok che va rapidamente trasformandosi nella sentina della cretinaggine e delle peggiori pulsioni umane (l’ultima moda è la “Boiler Summer Cup”: si invita una ragazza sovrappeso a ballare, si filma il tutto e si vincono punti a seconda del suo peso presunto, alla faccia della body positivity e dell’inclusione su cui noi dei giornali pensiamo si stia instradando il sentimento comune), si è diffusa l’idea che basti poco per farsi valere e guadagnare qualcosa. Fior di agenzie e ogni genere di furboni ci spiegano infatti che con diecimila follower su Instagram si passa automaticamente nella categoria dei micro-influencer (con cinquemila si appartiene ai “nano”) e che proprio per questa ragione la tua community penda dalle tue labbra. Ci sono agenzie che si propongono come tue manager appena superi la soglia dei mille, pronte a venderti i servizi più disparati per migliorare la tua “profilazione” e insegnandoti a “convertire i link in Seo” (così nel frattempo fai salire anche le quotazioni di qualche altro loro cliente), convincendoti che nessuno meglio di te, così credibile per la tua cerchia di amici, così “verticale” nei contenuti (la verticalità, assimilabile alla monotematica, piace molto perché permette di categorizzare velocemente, modello classifica libraria o macelleria YouPorn, a ognuno il suo quarto di bue preferito, e in effetti sui social c’è gente che posta solo i propri piedi calzati in maniera fantasiosa) potrà essere un miglior venditore di prodotti di ogni genere. 

 

I tassi di conversione sulle vendite non sono chiari nemmeno per gli influencer da milioni di follower. Quanto vale una sponsorizzazione?

 


Anche in cambio di merce, si intende. I soldi sono la nota dolente della faccenda: se sei un micro-influencer con una micro-community, è del tutto logico e consequenziale che tu possa essere soddisfatto da un micro-pagamento, anche in natura come Azzeccagarbugli con i capponi di Renzo. L’agenzia che ti piazza, invece, si fa pagare in contanti. “Il 99,2 per cento di chi ha fra i mille e i diecimila follower crede nei prodotti e nei servizi che promuove”, sostiene una ricerca sul tema di qualche anno fa, sviluppata da SocialPubli.com, ma l’esperta di famiglia mi dice che funziona ancora così, “e chi decide di collaborare con un brand più di una volta lo fa proprio perché è suo fan e ne usa frequentemente i prodotti o i servizi. Chi li segue li sente vicini a sé per caratteristiche e stili di vita”. Insomma, anche le formiche nel loro piccolo fanno affari. 

 

Ma il punto vero, ultimativo, di questo affannarsi quotidiano, è che nel giro di pochi anni è cambiata completamente non tanto la nostra valutazione delle opportunità lavorative (in genere, nessuno pensa di campare di alimentari gratuiti, o di pannolini per il bebé lasciati sulla porta di casa con l’hashtag, ancorché certamente aiutino) quanto la nostra idea di noi stessi e del nostro successo personale. La misurazione di quanto siamo fighi. Esattamente come budget suona più cool di “bilancio preventivo”, la sola idea di definire i nostri amici e colleghi “community” invece di “gruppo” o “cerchia” – che fa un po’ corrispondenza del duca di Saint-Simon, roba “antica” – ci fa sentire tutti più vicini a Lady Gaga con i suoi “little monster” o a Zendaya che lavora alla moltiplicazione della community per Valentino e Bulgari. Insomma star con attività parallele di successo, ben pagate, corredate da cascate di cuoricini e pollici alzati da parte di gente che mostra di ammirarle. Gente sconosciuta. 

 

I soldi sono la nota dolente: se sei un micro-influencer con una micro-community, è logico che tu sia soddisfatto da un micro-pagamento

 

 

D’altronde, a dispetto di quanto si vada generalmente cianciando per le più svariate ragioni, fra i propri amici e la community c’è una differenza sostanziale, garantita dalla stessa virtualità del rapporto che, per quanto ci sembri stupefacente e anche un po’ maleducato quando ne diventiamo vittime, prevede la riduzione delle inibizioni e delle condizioni di subordinazione che vigono invece nella relazione diretta. Quando la polizia postale intercetta un hater, o anche un fan che si è spinto troppo in là e quello dice agli agenti in divisa che gli sequestrano il pc di non essersi reso conto di aver travalicato i confini dell’illegalità, un po’ è davvero in buona fede. Come nota la sociologa Sara Kiesler nei suoi studi sulle interazioni uomo-macchina, l’uso molto diffuso dei nick o dell’avatar come immagine di riferimento non offre a chi li impiega l’illusione dell’impunità per i propri gesti e le parole usate, come in genere si crede, quanto una percezione diversa della realtà fisica propria e del soggetto con cui ci si relaziona. 

 

Età, ceto sociale, titolo smettono di rappresentare un vincolo. Ci si pone dunque tutti, apparentemente, su un piano di parità, da cui si degenera presto (se siamo in rapporto di amicizia e ci diamo del tu, perché non devo dire al tizio che è un cretino come farei, affettuosamente si intende, con l’amico al bar?) ma da cui si pretendono parimenti attenzione, carinerie, perfino affetto come in una relazione vera. Nella sua newsletter “¡Hola Papi!”, lo scrittore John Paul Brammer (il suo libro “Come fare coming-out in un parcheggio Walmart e altre lezioni di vita” è un must della comunità queer) puntualizza, personalizzandolo, un aspetto fondamentale, e cioè che “il tempo trascorso su Internet ha offuscato la distinzione tra la mia identità online e la mia personalità offline: il mio senso del sé. La maggior parte dei social media è formato da persone che parlano da sole, con l’illusione di parlare tra loro”). Con la nostra community, insomma, interagiamo in parte come i senatori romani con i clientes, cioè offrendo ascolto e becchime (provate a non rispondere almeno con un cuore a chi vi lascia un commento carino; i social media manager dei grandi brand e delle personalità vere lo fanno tutto il giorno in vece di, dando ai polli l’illusione di una relazione che ovviamente non esiste), in parte come star che si concedono all’adorazione altrui, senza però ben sapere chi abbiamo di fronte. 
 

Con la community interagiamo in parte come i senatori romani con i clientes, in parte come star che si concedono, ma chi abbiamo di fronte?

 

E soprattutto, se un pubblico davvero ci sia. Cosa che peraltro in cuor nostro, noi delle micro-community senza necessità di social media manager, sappiamo tutti. Per questo, un po’, ci inteneriamo quando la conoscente con qualche centinaio di follower posta il proprio video della “ricetta del giorno”, truccata e acchittata come Benedetta Parodi o studiatamente naturale come la nuova star del sistema Benedetta Rossi, nella speranza di scalare la piramide del successo mediatico che poi si tradurrà in un libro cartaceo, vera e unica consacrazione come cinquecento anni fa. Sappiamo benissimo che solo i nostri amici veri lasciano cuori reali e commentano i nostri post e i nostri video mettendoci un minimo di impegno, o che lo fanno i nostri clientes in vario grado (pr, uffici stampa, clienti in senso proprio), mentre tutti gli altri si limitano a sbirciare, tenendo sotto controllo le nostre attività per capire come cavarne qualcosa. Ogni tanto bisogna dire le cose come stanno, anche per provare, seriamente, a uscire da questa bolla social dove ben poco impariamo e interagiamo e molto ci indisponiamo, giorno dopo giorno un po’ di più, per la gioia di chi assiste ai nostri combattimenti da pollaio tentando di rifilarci i suoi prodotti nel frattempo. Le nostre community, in fondo, siamo sempre noi. 

 

P.s. Per capire come funzioni davvero il sistema, per scrivere questo articolo ho fatto un po’ di ricerche fra le agenzie specializzate in valorizzazione delle community. Nel giro di tre ore, hanno infettato con i loro annunci pubblicitari anche i social a mio nome che non ho usato.

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