Foto: Olycom

la madre geniale

Maria Giudice è stata la leonessa del socialismo italiano

Sandra Petrignani

L'ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli racconta la vita della dirigente del partito socialista e del suo rapporto difficile con la maternità. Con l'ultima figlia, Goliarda Sapienza, costruì un rapporto speciale

Maria Giudice, virgola, la madre di Goliarda Sapienza. Da quando la figlia è diventata molto più famosa di lei, anche a Maria è toccata la sua fetta di celebrità. Ma quanto ingiustamente limitata e di deriva per un’attivista politica, sindacalista, arruffapopolo, dirigente di partito, giornalista e pure maestra, che con la sua vita spericolata, difficilissima, perseguitata, ha contribuito a scrivere la storia d’Italia, e delle donne in particolare. Pur non essendo mai stata femminista, pur disprezzandole le femministe. Maria Giudice è una figura contraddittoria ed esagerata, e proprio in virtù dei suoi eccessi tanto più affascinante

Viene fuori adesso a tutto tondo, finalmente protagonista assoluta, in un libro pubblicato da Perrone, Maria Giudice. La leonessa del socialismo (140 pagine, 15 euro) di Maria Rosa Cutrufelli, che coltivava il desiderio di scriverne da tanti anni, senza fin qui averne trovato l’occasione. E per essere esatti, da quando nella giovinezza, precisamente nel 1990-1991, durante la Guerra del Golfo, frequentava un “gruppo di autocoscienza” femminista – li chiamavamo così – a casa della rimpianta comune amica Adele Cambria, scomparsa da una decina d’anni, talmente bella con i suoi occhi azzurrissimi e tanto magra e piccolina da meritarsi il soprannome di Lollobriciola. Allora: in una di queste riunioni in cui si mangiava insieme, si seguivano insieme all’occorrenza le notizie allarmanti in tv sulla guerra o altra attualità politica, soprattutto si svisceravano i fatti nostri, i segreti fin lì nascosti per pudore, le aggressività represse, in una sorta di spesso pericolosissima terapia di gruppo senza guida, finiva sempre che l’imputata numero uno era per ognuna la propria madre. Spesso fra le lacrime scoppiava il bubbone: il complicato rapporto di amore e odio che avevamo con le donne che ci avevano messe al mondo. E Goliarda, ricorda Cutrufelli, aveva una madre ingombrante, ingombrantissima, che amava però perdutamente e che tenne con sé fino all’ultimo giorno, quel 5 febbraio del 1953 in cui la leonessa cedette le armi e morì. Una madre insonne e intelligente. “E’ la troppa intelligenza”, diceva la figlia, “che non la fa dormire mai”.

Era nata, Maria, nel 1880 nell’Oltrepò Pavese, a Codevilla, nella provincia di Pavia, da due genitori, Ernesta e Ernesto Bernini, “uguali nel nome e opposti nel carattere”. Quel nome, Ernesto, ha un ruolo importante nel suo destino, perché a Voghera, dove conclude gli studi per diventare maestra, incontra un giornalista geniale, Ernesto Majocchi, amico fra gli altri di Giuseppe Pellizza da Volpedo, che fonda giornali (“L’uomo che ride”, “La parola dei lavoratori”) ribelli e popolari, e dunque invisi al governo. Il primo dei grandi esagerati che Maria ha incontrato nella vita, ma che resta solo un compagno di lavoro, un maestro, molto più grande di lei. Majocchi la butta nel giornalismo politico come nell’acqua alta e le insegna a nuotarci. E lei impara a governare la macchina di un quotidiano, ma anche a scriverci dentro coraggiosa e appassionata. Pur non volendosi definire femminista, vede bene la doppia ingiustizia sociale che grava sulle donne e, già all’inizio del 1900, quando ha solo vent’anni, rivendica il loro diritto al voto mettendosi in vista non solo fra operai e contadini, ma presso la prefettura di Pavia, dove si è trasferita, e dove la tengono d’occhio. Soprattutto quando si iscrive al Partito Socialista e va ad arringare i lavoratori sul campo, perché “è diventata una militante infaticabile” scrive Cutrufelli “una missionaria del socialismo, e non c’è paese che non visiti di persona”. Finché, a Borgosesia, davanti alla Manifattura Lane, dove alcune operaie sono state licenziate e si protesta, lei si stende per terra sul selciato, tutta vestita di bianco, mentre due guardie la trascinano per arrestarla. Ed è il primo di una serie di arresti che l’accompagnerà tutta la vita. Per una senza-fissa-dimora come lei, oggi qui domani là dove la chiama la rivolta, il carcere è un momento di sosta e di riflessione. Poi un giorno il carcere le porta anche l’amore, sotto forma di un assistente del suo avvocato. Un compagno, naturalmente, alto e coi capelli rossi. Si chiama Carlo Civardi, lo manda il partito per sostenerla. E lo manda il destino per cominciare una relazione sentimentale travolgente che produce ben sette figli e dura fino al 1917, quando lui muore al fronte.

Ma a questo punto bisogna prendere fiato un attimo e vederla da vicino questa storia dei figli, sconsiderata e sorprendente. Maria è una donna libera. Maria, per esempio, rifiuta e rifiuterà sempre, alla faccia dei figli che genera, di regolarizzare la sua unione sposandosi. “L’amore”, dice, “è una cosa così intima, così assolutamente personale, che il farne un atto pubblico o, peggio ancora, ufficiale, è profanarlo”. Lei ha scelto la politica, la maternità è un incidente di percorso. Si sente e vuole essere libera, decidendo ogni giorno di amare il suo Carlo. E questi bambini, che la coppia fa nascere con tanta incredibile leggerezza, vengono subito consegnati a quattro amorose sorelle che provvidenzialmente lui ha a Stradella (ancora provincia pavese, ancora Oltrepò) e che vivono insieme nella stessa casa. Maria, oltretutto, non ha un carattere geloso: lascia i figli alle “cognate” come lascia continuamente solo il suo compagno perché lei ha scelto una volta per tutte la vita attiva (forse considera vita attiva anche mettere al mondo una nidiata di cuccioli senza poi occuparsene?).

Un vero mistero. Finisce una gravidanza che ne comincia subito un’altra: Josina, Cosetta, Licia, e poi José e Ivanoe, e infine Danilo e Olga. E siamo arrivati al 1913. E non è amore per la famiglia, visto che i genitori questi ragazzi li vedono raramente. Mentre è incinta della prima figlia, per esempio, Maria Giudice si trova in Svizzera, esule per non finire di nuovo in carcere, ospite di Angelica Balabanoff, altra rivoluzionaria, russa, apolide, ma che almeno bambini non ne mette al mondo, o forse sì, ma una sola, come vedremo subito. E con Balabanoff, Maria trova anche tempo ed energie per fondare un giornale, “Su compagne!”, dalla parte delle donne, ma non femminista, per carità, il femminismo per loro “puzza di filantropia lontano un miglio”. Loro sono dure e pure. E poi le femministe si aspettano la complicità degli uomini nella loro lotta, mentre Maria e Angelica sanno bene che, come la classe borghese non rinuncia spontaneamente ai suoi privilegi verso la classe operaia, così i maschi verso le donne. A Lugano Maria conosce Lenin, conosce anche un Mussolini ancora socialista. E non le piace. Mentre ad Angelica sì, Angelica addirittura se ne innamora (una leggenda vuole che Edda Ciano sia in realtà la figlia sua e di Benito…)

Poi il ritorno in Italia, gli altri figli, i soliti arresti, la miseria. Maria comincia a lavorare nel nuovo periodico, “La difesa delle lavoratrici”, fondato da un’altra esule russa, la bellissima, elegante Anna Kuliscioff, compagna di Andrea Costa e poi di Filippo Turati. Le due rivoluzionarie però non legano: Maria è un cane sciolto che tiene alla sua indipendenza, non lega nemmeno con Antonio Gramsci, conosciuto in redazione. Poi la guerra, la vedovanza, la solitudine, pur ricoprendo ruoli di prestigio mai affidati prima a una donna: la direzione della Camera del Lavoro, la segreteria del Partito Socialista. Arrivano gli anni Venti, l’ascesa del fascismo. Ma intanto Maria, inviata in Sicilia dal partito con funzioni di propaganda, nel clima surriscaldato dalle camicie nere che disturbano i suoi comizi, s’innamora di nuovo: dell’avvocato catanese Peppino Sapienza, detto l’avvocato dei poveri (e quindi soldi pochi), generoso, colto, dongiovanni con l’immancabile gardenia nell’occhiello della giacca. Va a vivere a Catania con lui. E una notte i fascisti cercano di dar fuoco alla casa. Ma lei, che soffre di insonnia, sente l’odore del fuoco e prontamente annoda le lenzuola e fugge con Peppino calandosi dalla finestra come fuggisse da un carcere.

Peppino è un vedovo con tre figli a carico, dai nomi che la dicono lunga sulle sue inclinazioni politiche: Goliardo (che muore molto giovane), Libero e Carlomarx. Più altri illegittimi sparsi per il mondo… E siccome la prolificità accompagna queste vite esuberanti, ecco che con Maria (che nel frattempo ha chiamato a vivere con sé nella casa dell’avvocato tutti i suoi figli) ne produce altri tre: ma due muoiono e ne resta una sola, Goliarda, la più amata, l’unica per la quale Maria Giudice è una madre normale, l’unica che vede davvero crescere e a cui si affeziona moltissimo in un rapporto addirittura simbiotico. Intanto ci sono state perdite in quella sua grande nidiata. Se n’è andato Goliardo, il figlio di Peppino, forse ucciso dalla mafia per punire quella coppia irritante, oltre i due neonati avuti da lui, ma anche il suo Danilo, cui cede il giovane cuore.

Forse è perché si sente stanca di fronte al fallimento del suo modo di essere stata madre, delle sue lotte, delle sue speranze in un sol dell’avvenire che si sta spegnendo nella dittatura, oppure è perché ha finalmente assaporato una vita riscaldata dall’amore di una vera famiglia, e una famiglia gigante, fuori misura. Ora Maria è tentata di gettare la spugna, anche perché ha le mani legate.

E’ il 1926 (Goliarda era nata due anni prima), l’opposizione al regime è ormai considerata delitto di Stato. Umberto Terracini viene arrestato in settembre. L’8 novembre è la volta di Gramsci che, in barba all’immunità parlamentare come deputato qual era, viene rinchiuso a Regina Coeli, Turati si mette in salvo in Francia. Il prefetto di Catania può tirare un sospiro di sollievo e scrive nel suo rapporto: “La Giudice, pur conservando le sue idee, non ha più svolto attività sovversive”. E poi altri due lutti enormi: muore Josina, per una polmonite presa per sfuggire a una retata fascista nascondendosi nell’umido di una risaia per una notte intera. E muore José. Aiutava profughi a passare la frontiera. Buon sangue non mente. Viene preso e chiuso in cella dove lo trovano impiccato e non si saprà mai se è stato davvero un suicidio.

Ma cosa resta allora a Maria, cui lo stato non permette nemmeno di tornare a insegnare come avrebbe desiderato? Attaccarsi alla sua bambina che intanto sta diventando ragazza, e allontanare le altre figlie troppo avvenenti agli occhi dell’avvocato Sapienza appassionato di donne. Sì, c’è anche quest’ombra nelle loro vite tormentate. Goliarda lo racconterà con una dose di incertezza un giorno, diventata scrittrice, perché se il padre ha tentato o meno di sedurre le figliastre è “una domanda a cui”, commenta Maria Rosa Cutrufelli, “ha cercato di rispondere per tutta la vita. Ma senza voler rispondere davvero…”. Un padre, fra l’altro, che con lei era meraviglioso. Che ne capiva la natura artistica e la voleva attrice di teatro. Spinta da Peppino, a sedici anni si trasferisce a Roma dove ha vinto una borsa di studio per l’Accademia d’arte drammatica. Ma come separarsi da quella madre adorata, dal suo largo viso squadrato, dal grande seno accogliente? Allora è Maria che la raggiunge. Non abbandona Peppino che non abbandonerà mai loro due: si vogliono bene da lontano. Lui da Catania manda il denaro a Roma condito di raccomandazioni, e intanto ha chi lo accudisce, una nuova compagna, la madre di altre due sue figlie…

E’ sempre una sorvegliata speciale, anche a Roma, Maria, ma la polizia non ha niente da temere da lei ormai: fa vita ritirata, legge, studia, scrive racconti, non frequenta nessuno. Bada alla sua figlia geniale, che dipende troppo da lei, e la spinge a muoversi, vedere il mondo, essere indipendente, anche se ammette: “Tu, sei l’unico legame che mi tiene ancorata alla vita”. Così, quando cade il fascismo, è Goliarda a buttarsi nella politica, a seguire il padre nella lotta partigiana. C’è lei al suo fianco, non Maria, quando nel ’44 entrano a Regina Coeli per liberare Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e altri antifascisti chiusi nel braccio tedesco della morte.

Maria perde colpi, ha momenti di annebbiamento, parla da sola, dimentica le cose. Eppure, caduto il fascismo, riesce ancora a ritrovare la Balabanoff, a scrivere la postfazione al suo libro Il traditore Mussolini e a contribuire con lei e altre resistenti a fondare l’organizzazione femminile dell’Udi, l’Unione donne italiane. Entra ed esce da cliniche psichiatriche per curarsi. Però, alla fine del 1949, è a Peppino Sapienza, il suo grande amore, che si ferma il cuore. Lei resiste altri tre anni, accanto a Goliarda che ora vive con Citto Maselli, e li ammonisce: “Mai! Non sposatevi mai! E’ un errore”. Finché, il 5 febbraio del 1953, si scrolla la vita di dosso e muore anche lei, a settantatré anni. Dirà proprio così Goliarda a Citto, piangendo disperata: “Si è scrollata la vita di dosso, proprio come una persona che si scrolli un peso dalle spalle”. Avrà un funerale grandioso, Maria, come quello che aveva avuto a Catania Peppino Speranza, coi garofani del socialismo e tante bandiere rosse. Ma per lei ci sono fra la folla, in prima fila, Terracini e due futuri presidenti della Repubblica: Saragat e Pertini.

Di più su questi argomenti: