un'ossessione umana
Complottisti da sempre, i media non c'entrano
E’ vero, la diffusione capillare delle informazioni ha favorito la propagazione delle teorie cospirazioniste. Il fenomeno, però, ha accompagnato la storia dell’uomo ben prima della rivoluzione digitale. Esempi
Diversi analisti hanno richiamato l’attenzione sull’attuale diffusione di una lettura cospirazionista della realtà. Per la verità si tratta di uno schema interpretativo degli eventi che ha una lunga storia: basta pensare all’accusa rivolta già nel primo secolo dai pagani ai cristiani di complottare per sostituire all’Impero romano un nuovo ordine politico e sociale. Ma non c’è dubbio che alcune recenti vicende hanno reso il fenomeno particolarmente appariscente, ampio e inquietante.
Dal 2017 avevano cominciato a circolare in Rete le teorie QAnon, secondo cui un gruppo di pedofili segretamente insediato nel cuore profondo dell’amministrazione statunitense (deep State) avrebbe cospirato per abbattere il governo Trump al fine di stabilire un nuovo ordine mondiale. Un loro fervente apostolo, Jacob Chansley, ne ha mostrato la capacità di incidere sulla politica americana. Si tratta infatti dello “sciamano”, protagonista e, allo stesso tempo, simbolo dell’attacco al Congresso nel tentato colpo di stato che mirava a impedire nel gennaio scorso l’accesso al governo di Joe Biden.
Ma il complottismo è deflagrato con l’apparizione del virus Covid-19. La circolazione della pandemia a livello planetario, le misure restrittive prese da gran parte dei governi nazionali per limitare il contagio, le sollecitazioni delle autorità scientifiche alla vaccinazione e i conseguenti provvedimenti amministrativi hanno scatenato sui social media le più fantasiose rappresentazioni in termini cospirativi di questi singoli avvenimenti o del loro insieme. Ne è un esempio la notizia – che sembra essere uno dei punti di riferimento per gli atteggiamenti no vax – secondo cui l’origine della pandemia è riconducibile all’occulto disegno di Bill Gates d’impiantare microchip in grado d’assicurare la tracciabilità dei vaccinati.
Anche all’interno della Chiesa queste teorie hanno trovato propagandisti. Pur senza diretti riferimenti, vi ha fatto allusione persino Papa Francesco nel ricordare, non senza una traccia di mesta ironia, la presenza di “negazionisti” all’interno del sacro collegio. Le testimonianze esplicite sono comunque molteplici. Più che il recente video postato da mons. Carlo Maria Viganò – tardo epigono della cultura cattolica integrista patologicamente ossessionata da una visione complottista della storia – lo mostrano le notizie giornalistiche su tesi cospirazioniste pubblicamente avanzate, persino nella predicazione, da qualche parroco o prelato.
Alcuni osservatori hanno sottolineato che il successo del fenomeno è strettamente legato alla rivoluzione digitale avvenuta nella comunicazione. La semplificazione del discorso che caratterizza i social media esalta in effetti i tratti strutturali della retorica complottista: occultamento del soggetto responsabile di un’azione in una generica e indeterminata categoria di mandanti; rivestimento scientifico del linguaggio senza autentica applicazione del metodo scientifico al discorso; ricorso a luoghi comuni, in via di principio condivisibili, utilizzati per propalare presupposti inverificabili; ricorso parziale e strumentale a sentenze giudiziarie ecc. Si è così sviluppata una “filologia digitale” che riesce a dimostrare l’infondatezza di tesi cospirazioniste circolanti in Rete. Applicando ai siti web gli strumenti della critica filologica, essa ricostruisce la progressiva manipolazione di notizie inizialmente vere fino a plasmarne una configurazione finale che stravolge l’enunciato di partenza.
Un esempio significativo viene proprio dal complotto attribuito appunto a Bill Gates. La trasmissione da un sito all’altro di una sua effettiva dichiarazione sui vaccini è avvenuta attraverso una successione di piccole distorsioni del contenuto che via via ne hanno sempre più stravolto il senso. Al termine del percorso falsificatorio i complottisti hanno potuto far trionfalmente circolare in Rete la notizia che lo stesso autore della manovra cospirativa l’aveva pubblicamente annunciata. Il nuovo mondo dei media – in cui l’universalizzazione della possibilità di comunicare a un pubblico potenzialmente illimitato è associata all’irresponsabilità dell’autore della comunicazione – ha certamente facilitato la propagazione e l’incidenza della spiegazione cospirazionista degli eventi.
Tuttavia il fenomeno ha accompagnato la storia degli uomini ben prima della rivoluzione digitale. Proprio per evitare una semplicistica lettura in chiave esclusivamente mediatica di un fenomeno che può essere adeguatamente affrontato solo se ben compreso nelle sue complesse articolazioni, è stato organizzato a Pisa nell’auditorium di Palazzo Blu – uno spazio gestito dalla locale Fondazione Cassa di risparmio per la promozione di attività culturali – un ciclo di conferenze intitolato “Il complotto e la storia”. Gli incontri hanno approfondito il tema esaminandolo attraverso un approccio multidisciplinare (di volta in volta semiotico, linguistico, politologico, storico). Senza poter qui restituire la ricchezza degli apporti – che gli interessati possono comunque interamente ascoltare a questo indirizzo –, vale però la pena di riassumere le acquisizioni fondamentali scaturite da relazioni svolte da specialisti nei rispettivi campi.
Un primo aspetto riguarda il dato linguistico. “Complotto”– una parola che ha origine nel francese medievale con il significato di assembramento e per estensione di intrigo ai danni di qualcuno – comincia saltuariamente ad apparire nell’Italia del Settecento. Un numero significativo di occorrenze si registra solo nel periodo post unitario. Il termine viene utilizzato, assieme ai sinonimi “congiura” e “cospirazione”, per indicare una trama – solitamente sventata dalle forze dell’ordine – che un gruppo di sovversivi organizza nell’intento di abbattere l’autorità. All’inizio del Novecento matura un primo slittamento semantico con la diffusione di sintagmi come “complotto giudaico”, “complotto capitalista”, “complotto comunista”: la parola non indica più soltanto l’azione compiuta da un insieme di individui contro il potere, ma denota anche l’attività compiuta da un gruppo sociale contro un altro gruppo sociale. Con gli anni Ottanta interviene infine il capovolgimento che porta all’utilizzazione oggi abituale, anche se, com’è normale nei processi linguistici, i precedenti significati non scompaiono completamente dal discorso pubblico e privato. “Complotto” diventa infatti la macchinazione ordita dal potere ai danni dei cittadini.
Ma, mentre si svolge questo percorso, interviene in ambito linguistico un altro mutamento di rilievo. Nasce il sintagma “teoria del complotto”. Ha creato l’espressione il filosofo Karl Popper in un saggio del 1948. Vi sostiene che l’analisi della moderna società compiuta dalle scienze sociali mostra come essa sia diventata talmente complessa che qualsiasi evento sociale non può essere ricondotto alle intenzioni, esplicite o mascherate, di singoli individui o di gruppi, per quanto siano potenti. Anche se la tesi di Popper va storicizzata – sullo sfondo si legge infatti il rifiuto della pianificazione come forma d’ingegneria sociale –, l’acquisizione conoscitiva è indubbia. Le congiure esistono e possono essere ben documentate sul piano storico: non a caso Machiavelli ne aveva fatto una categoria della sua scienza politica, al pari del tirannicidio o dell’omicidio politico. Ma la complessità del mondo moderno esclude la possibilità che segrete macchinazioni siano in grado di cambiarne le strutture.
L’approccio scientifico alla società contemporanea induce dunque a distinguere tra complotti effettivi e teorie del complotto, che, con la pretesa di fornire una spiegazione complessiva dei processi sociali, costituiscono soltanto fantasiose rappresentazioni della realtà. Eppure l’omicidio del presidente Kennedy nel novembre del 1963 testimonia come la conquista di questa strumentazione analitica incida ben poco nei processi culturali e sull’opinione pubblica. Nella circostanza si registra infatti nel linguaggio comune, in particolare in quello giornalistico, una vera e propria esplosione del ricorso al termine complotto. Ne è ragione la diffusione di una spiegazione di quel tragico accadimento proprio sulla base delle più svariate e immaginifiche teorie cospirazioniste. A questo contesto va ricondotta la conferenza – diventata nel 1965 un celebre saggio – tenuta dal pubblicista Richard Hofstadter sullo stile paranoico della politica americana. La sua tesi – tutta la storia degli Stati Uniti, fin dalla Rivoluzione, è segnata da un discorso politico sorretto da una retorica cospirativa – si contrappone in realtà alla semplificatoria interpretazione delle teorie complottiste che, davanti al loro imperversare, ne hanno proposto alcuni intellettuali. A loro avviso il successo che esse incontrano è riconducibile all’esercizio di una funzione cognitiva. Costituiscono infatti la “cartografia del poveraccio”.