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Cosa accomuna Renatino, il Vietnam di Pietro Castellitto e l'ultimo Eastwood? Parecchio

Andrea Minuz

Un conto è la comunicazione, con le sue leggi implacabili. Un altro è l’arte, la fantasia, la libertà spregiudicata della finzione. Certo. Solo che la dittatura della letteralità le travolge entrambe, ormai senza troppe distinzioni.

Cos’hanno in comune l’ormai celebre Renatino, il Vietnam di Pietro Castellitto e l’ultimo film di Clint Eastwood? Niente, a prima vista. Parecchio, invece, se li leggiamo come esaltanti variazioni intorno a una delle più grandi piaghe del nostro tempo. Di sicuro, di tutto quello che passiamo sui social. Qualcosa che potremmo chiamare la “dittatura della letteralità”. Chiunque prima o poi c’è andato a sbattere contro. Con un post, un commento, qualsiasi altra cosa presa, appunto, un po’ troppo “alla lettera”. Non è solo colpa dei social, ma è chiaro che è lì che tutto si amplifica, diventa più vistoso, ridondante e rappresentativo dei processi in atto.

Ma partiamo da Clint. Clint Eastwood ha novantuno anni. Fa un film che si intitola “Cry Macho (che già suona come un manifesto, un testamento spirituale, come gli ultimi western “crepuscolari” di Ford). Ma a scorrere le reazioni in rete “non è verosimile”. Attenzione, non “è brutto, è scritto male, è lento” o altro. Ma non è verosimile che a novantuno anni Clint faccia a cazzotti, guidi un pickup Chevrolet, cavalchi e trovi anche il tempo di mettere su una tresca con una bella vedova messicana. Neanche Clint Eastwood può svincolarsi dalla forza di gravità del “verosimile” e del “letterale”. Nemmeno nei panni di Mike Milo, il personaggio protagonista di “Cry Macho”. Ma la confusione tra attore e personaggio (che ormai si porta tantissimo) o quella tra cronaca e finzione di cui sono infarcite le recensioni dei film (ricordate le accuse a Tarantino di aver “falsificato la storia” lasciando vivere Sharon Tate, anzi vendicandola a colpi di lanciafiamme?) sono solo parte di un problema più grande.

E veniamo al Vietnam. Raccontando la sua adolescenza, Castellitto parla della ferocia di Roma Nord. Di un certo ambiente sociale, di una competizione selvaggia, di un darwinismo spietato che spinge i figli della borghesia di Roma nord a essere i più belli, i più ricchi, i più forti della città, e tutte quelle altre cose che da adolescenti possono risultare complicate da gestire. A parte il fatto che la wasteland compresa tra Ponte Milvio e l’Aniene è il posto ideale per un remake di “Apocalypse Now”, Castellitto ha usato un’iperbole. Perfetta per i meme, certo. Ma ecco le letture “di classe” (se sei borghese non puoi avere avuto un’adolescenza difficile). Ecco le ripetizioni di storia: “il Vietnam, signori, è stata una guerra terribile, stiamo attenti a certi paragoni”. Di nuovo, la letteralità. L’impossibilità della metafora, del senso figurato, del linguaggio iperbolico. Non scomodiamo neanche “l’ironia” (l’ironia ormai va bene solo quando è “ironia social”, che in genere significa vari gradi e diverse modalità di “gogna”).

Eccoci quindi al povero Renatino. Come ha scritto Riccardo Pirrone sul Sole 24Ore, ricordando che lo spot è uno spin-off del film “Gli Amigos”, dunque parte di una campagna più ampia, diluita in sei puntate, l’uscita di Renatino non ha nulla a che vedere con lo sfruttamento dei lavoratori. Tralasciando anche qui il fatto che in Italia, per definizione, il lavoro è “sempre” sfruttamento, era semmai un’altra iperbole. “Perché il Parmigiano Reggiano viene veramente lavorato ogni giorno per seguire il ciclo produttivo che lo contraddistingue, quindi Renatino è solo una metafora cinematografica”. Metafora forse infelice. Sicuramente assai sprovveduta di fronte al meccanismo dei social. Un luogo dove la “pipa” di Magritte non può che essere sempre, soltanto e prima di tutto “una pipa”.  

Si dirà: un conto è la comunicazione, con le sue leggi implacabili. Un altro è l’arte, la fantasia, la libertà spregiudicata della finzione. Certo. Solo che la dittatura della letteralità le travolge entrambe, ormai senza troppe distinzioni. Uno dei momenti più belli dell’invenzione autobiografica di Verdone in “Vita da Carlo” è il suo sfogo contro una fan, peraltro malata di cancro, l’ennesima che gli rimprovera di aver perso ormai da tempo la verve comica dei primi film. Quelli sì che facevano ridere! Poi invece tutti un po’ seri, malinconici, quasi tristi. Verdone prova a glissare, annuisce, traccheggia (c’è anche di mezzo il cancro, e poi mai contraddire un fan, un po’ come mettersi contro i social). Poi però non ce la fa più e sbotta: “Ma anche i miei primi film erano malinconici! Ma come li vedete ’sti film???!”. Una sintesi perfetta. Magari valesse solo per i film.

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