C'era una volta a... Hollywood

La recensione del film di Quentin Tarantino, con Brad Pitt, Leonardo DiCaprio Margot Robbie

Mariarosa Mancuso

Il Nobel che avanza – il prossimo 10 ottobre ne verrà assegnato uno per quest’anno e uno per l’anno scorso, saltato per la manomorta che neanche in Svezia manca – datelo a Quentin Tarantino. Garantisce per lui uno scrittore come Amitav Ghosh, ammiratore di “Pulp Fiction” per la splendente scrittura che precede l’impeccabile messa in scena (Ghosh un Nobel non lo ha mai avuto, ma lo consideriamo cultore della materia: nella biblioteca di uno zio vedeva i nomi dei vincitori uno accanto all’altro, scervellandosi per capire cosa li tenesse insieme). Datelo a Tarantino che sa scrivere molto meglio di Elfriede Jelinek; o della signora che scoveranno quest’anno, mica potranno premiare due maschi. Datelo a Tarantino, così smetteranno di chiedergli perché nel film Margot Robbie – che ha la parte di Sharon Tate, magnifica – ha così poche battute. Come se al cinema le battute contassero più delle immagini, del dolcevita nero, della minigonna con stivali bianche, di un meraviglioso primo piano della ragazza che si guarda sullo schermo (dopo aver chiesto lo sconto alla cassa, “perché lei è nel film”). La smetteranno anche di accusarlo per “leso Bruce Lee”: familiari e fan sostengono che il campione di arti marziali non era così arrogante come appare nel combattimento con Brad Pitt, controfigura di Leonardo DiCaprio. Lo abbiamo già detto: solo un genio del male come Quentin Tarantino poteva immaginare una tale accoppiata, e solo due grandi attori senza paturnie potevano stare al gioco. Tocca ripetere, nella circostanza, che un film non è la vita spiattellata sullo schermo, che un regista e uno scrittore (anche di copioni) hanno diritto a tutte le libertà che vogliono prendersi, Bruce Lee era un personaggio pubblico (“parecchio arrogante”, ribadisce il regista). Se vi divertite di più con le figurine e gli stampini e le decalcomanie fate pure – nella stanza dei bimbi, però, e senza rovinare il divertimento agli adulti. Los Angeles, 1969: la madeleine di un ragazzino che allora aveva sei anni, e che ha sempre pensato a quel cinema, anche di serie B, come al paradiso in terra. Charles Manson e la Nuova Hollywood sono dietro l’angolo.

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