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Contro il metodo Cacciari

Massimo Adinolfi

La versione dei filosofi arrabbiati: il lockdown, lo stato di emergenza e ora il green pass calpestano la  nostra libertà. Falso: la fitta trama di norme di cui si dotano le società democratiche serve proprio a proteggere la libertà e a farla fiorire. Un’indagine, con l’esempio di un’antica pandemia

"Il mio primo atto di libero arbitrio consisterà nel credere nel libero arbitrio”: i filosofi, a volte, se la cavano così. Nel caso specifico, si tratta di William James, e della svolta nella sua esistenza prodottasi il 30 aprile 1870 (è una trionfante annotazione del suo diario: gli altri giorni soffriva di depressione). Altre volte, però, capita che si domandino, più prosaicamente, se esista un terreno concreto sul quale misurare la libertà. Valutarne l’estensione, la portata, l’efficacia. Inafferrabile nel suo principio, poiché nessuno ha mai potuto spiegare come comincia un atto libero – se comincia da qualcosa, cede a questa cosa la sua libertà; se non comincia da nulla, significa che per essa non c’è spiegazione possibile – può però essere almeno osservata nelle azioni che le si imputano, nelle condizioni che quelle azioni richiedono, nelle conseguenze che esse producono. 

    
E giù trattati (che ci risparmieremo). James aveva sul tavolino gli Essais de critique génerale del vetusto pensatore francese Charles Renouvier, da cui prendeva l’idea che l’unica posizione intellettuale coerente consiste nel credere che le nostre credenze sono libere, e dunque nel credere nel libero arbitrio. Non so se, come James, troviate convincente una soluzione simile – per alcuni è solo una furbesca scappatoia –, resta il fatto che la semplice credenza individuale è comunque cosa abbastanza fragile: schiere di psicologi, sociologi, economisti, storici, ci si butteranno sopra per domandarsi come si formano le credenze, come si cambiano, come si propagano. E come si inducono, anche.

   
Meglio, molto meglio, incardinare la libertà in abitudini, leggi, istituzioni. E cercare di capire se questo fitto tessuto di norme, di cui si dotano le società umane, è lì per conculcare la nostra libertà, o non piuttosto per proteggerla e farla fiorire. Una domanda ineludibile, in tempo di pandemia, mentre da ogni parte ci sentiamo raggiunti da nuove disposizioni, ordinanze, decreti, e ci viene fatto ingenuamente di pensare che respireremmo un’aria più libera se invece, per una volta, ci lasciassero in pace.

 
Aria più libera, o più malsana?    

“Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta, che infiniti addusse/ lutti agli Achei […]”. L’inizio della libertà è un bel problema; l’inizio della letteratura occidentale, e della nostra storia, lo è un po’ meno. E questi versi sono con noi, nella traduzione di Vincenzo Monti, da quando esiste l’Italia e la scuola italiana. Se ne facciamo memoria, è perché può servirci richiamare racconti lontani per capire qualcosa dei giorni presenti (en passant: ho appena impiegato il verbo “servire”, anche se sono sicuro che un ministro che dubiti dell’utilità dello studio dell’Iliade non è difficile trovarlo. Nel caso, queste poche righe gli sono dedicate).

    

    

I giorni presenti, dicevamo: i primi casi a Wuhan, il poco che se ne sapeva, le contraddittorie comunicazioni ufficiali e le prime misure di contenimento. Poi l’allarme che arriva qui da noi, e si diffonde nel mondo intero. E poi i ritardi – forse inevitabili, forse no – e l’improvvisazione, e i numeri che crescono rapidamente. I contagi, i ricoveri, i morti. I bollettini quotidiani, le statistiche: un rosario che non finisce mai. Poche settimane e il paese intero precipita in un incubo. Le misure igieniche, i lockdown, le fila di autocarri militari a Bergamo, il collasso del sistema sanitario e il fermo dell’economia e della società. Le zone rosse, e il cupo sbigottimento. Le strade vuote e la finta allegria dei balconi.

 
Ma il racconto continua: arriva il sollievo dei mesi estivi, e, alla ripresa autunnale, la speranza che presto venga reso disponibile il vaccino. La paura di una perenne quarantena si attenua. Parte la campagna di vaccinazione, l’accompagnano polemiche a volte incomprensibili. Non ci sono solo i No vax, ci sono anche fior di intellettuali che fanno loro da indecente corona. La prima dose, poi il richiamo, poi con e poi, dinanzi a una nuova ondata di contagi e al diffondersi di nuove varianti del virus, il ricorso a una terza dose e la necessità di valutare l’obbligatorietà del vaccino. Un’altra limitazione della libertà? Un sopruso dello stato? Un altro giro di vite della società securitaria?

   
Fin qui, devo ammettere che la Diva che ispirava Omero non ha soccorso granché me: il racconto suona decisamente pedestre, e restituisce poco o nulla del trauma vissuto, e, credo, non ancora assorbito. Pioveranno in futuro saggi, romanzi, diari, memorie.

   

Questione di fiducia: nelle istituzioni. Nei mesi della peste ad Atene, scrive Tucidide, la paura degli dèi e la legge degli uomini non rappresentavano più un freno. Nei mesi della nostra pandemia, invece, le regole non sono saltate

   

Nel frattempo, conviene tornare all’ineguagliabile prototipo omerico, prima ancora di affrontare le domande su cui mi sono fermato, e a cui vorrei dedicare l’attenzione maggiore. Ma ci arrivo. 

   
Dicevamo: Achille è in preda all’ira, lo ricordiamo bene. Ma perché? Perché è così incazzato? Perché Agamennone, capo di tutti gli Achei, gli ha sottratto la schiava Briseide, parte del bottino di guerra. E perché l’Atride ha compiuto una simile prepotenza? Perché ha dovuto a sua volta rinunciare alla bella Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Cosa però aveva convinto Agamennone a restituire la sua schiava al padre, per poi rivalersi su Achille? La vendetta del dio, che “contra i Greci / Pestiferi vibrò dardi mortali”. La peste, insomma, diffusa nel campo acheo da Apollo, offeso dall’oltraggio subito da Crise, che in un primo momento si era visto negare da Agamennone il riscatto della figlia. Tutti gli eventi che si srotolano negli altri ventitré libri dell’Iliade, e nell’intera storia culturale occidentale, provengono da lì.

  
La genealogia della pestilenza, che il poema racconta, non è di molto aiuto nel fronteggiare la pandemia, ne convengo (anche se in rete si trova ben di peggio). Ma non è per questo motivo che ripropongo antiche storie. Emanuele Stolfi, che ad esse ha dedicato un libro recentissimo (Come si racconta un’epidemia. Tucidide e altre storie, Carocci editore) la mette così: “Volgersi al modo in cui la cultura antica affrontò il motivo delle epidemie è una strada per cogliere analogie ma anche, se non soprattutto, distanze e alterità fra il passato e il presente”. Analogie, ma soprattutto distanze, differenze. Stolfi si sofferma in particolare sul morbo che colpì Atene durante la guerra del Peloponneso: dopo tutto, quella di Omero è un’invenzione poetica, mentre la peste che flagellò Atene, raccontata con parole asciuttissime da Tucidide, fu ben reale. Ed è probabile, tra l’altro, che la sua eco si percepisca anche nei versi dell’Edipo Re di Sofocle: ricordate anche questi? La malattia si diffonde a Tebe, e a Edipo tocca di capire cosa l’abbia scatenata e come salvare la sua città. Quando scoprirà di esserne lui stesso il responsabile, per aver ucciso di sua mano il padre Laio, ignorandone l’identità, prenderà disperato la via dell’esilio. 

  
Ma, al di là delle suggestioni letterarie (e filosofiche, e psicanalitiche), cosa può davvero insegnare questa breve immersione nella storia e nel mito? “Direi che nella sostanza si delineano tre temi – scrive Stolfi –: quello della causa del male – col connesso profilo delle responsabilità umane e delle implicazioni religiose; quello del rapporto col contegno di chi guida una comunità; quello della risposta fornita dalla medicina”. Non è mia intenzione istruire tutti questi temi: rimando volentieri al prezioso libriccino. E neppure intendo cavarmela con qualche ovvietà. Del tipo: noi non crediamo nella vendetta degli dèi, non barattiamo schiavi né spartiamo bottini, non compiamo sacrifici, non pronunciamo scongiuri, non ascoltiamo oracoli ma medici e scienziati (o almeno si spera).

  

E dunque: che ce ne facciamo di quelle vecchie storie? Vi sono altre differenze, però, assai più significative che non il minore senso religioso e la superiore conoscenza scientifica di noi moderni. Una salta gli occhi: né Omero, né Tucidide, né Sofocle parlano di economia, di fabbriche chiuse e lavoratori disoccupati, e non solo perché non c’erano ancora le fabbriche (altra ovvietà), ma perché evidentemente non è sul terreno dell’economia che per gli antichi si scriveva, e si decideva, il senso e la portata degli eventi narrati. Non è di quello, insomma, che doveva preoccuparsi il grande Agamennone, in sede epica, o il grande Pericle, in sede storica.

  

L’altra differenza è un po’ più sottile, e ci porta finalmente sul terreno specificamente moderno, sul quale, diversamente da quel che accadeva nel tempo antico, sono chiamati a rispondere del male, e a fronteggiarlo, non semplicemente uomini – fossero anche eroi, indovini o strateghi – ma istituzioni. E tutto sta, o cade, con esse. Nel fare la storia di questi due anni di pandemia, non degli ultimi giorni dell’assedio di Troia, non possiamo infatti non trovare un posto a cose come l’Organizzazione mondiale della Sanità, l’Unione europea, il governo italiano, i vari comitati scientifici e le istituzioni commissariali, le regioni, le prefetture, i sindaci, e così via. E sul versante scientifico non i singoli scienziati che vanno in tv, ma le più consistenti Agenzie del farmaco, i laboratori, le case farmaceutiche, gli ordini professionali, le università e i centri di ricerca, le aziende ospedaliere, la rete delle riviste scientifiche, e qualcos’altro ancora che sicuramente mi sfugge.

  
Nell’accampamento acheo non c’era nulla del genere. E nemmeno nell’Atene periclea. Tucidide, che ci offre la cronaca dei terribili mesi della peste (lui stesso si ammalò, e fu tra i pochi a salvarsi), scrive che “la paura degli dèi e la legge degli uomini non rappresentavano più un freno”: per la città, “fu l’inizio del dilagare della corruzione e dell’assenza di regole”.

  

Torniamo ai nostri giorni: abbiamo guadagnato sufficiente distanza storica e temporale per far risaltare la differenza principale. La scienza, certo, e i vaccini, e le preoccupazioni per l’economia. Ma il fatto ancor più macroscopico è che le regole non sono saltate. Ci hanno chiesto di lavare le mani e indossare la mascherina, di osservare il distanziamento sociale, di svolgere certe attività a distanza, di posticiparne alcune e di rinunciare ad altre. Ci è stato chiesto con il green pass, di certificare la nostra condizione e, con il vaccino, di prevenire la malattia. Lo abbiamo fatto, a stragrande maggioranza, e cioè: ci siamo fidati delle istituzioni. Abbiamo, in genere, creduto che le decisioni assunte dalle autorità proteggessero, e non limitassero, la nostra libertà. 


Dopo le ovvietà e i ricordi scolastici che vi ho propinato, ecco una cosa, la fiducia nelle istituzioni, che non è affatto ovvia e su cui conviene soffermarsi, perché è semplicemente decisiva. Prendete il primo articolo che Giorgio Agamben pubblica sul tema: “L’invenzione di un’epidemia”, apparso il 26 febbraio 2020 e presto rilanciato dappertutto. Non lo rileggo per approfittare del titolo infelice (viste come sono andate le cose) ma per segnalare che la tesi in esso contenuta – è in atto una “tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo” – si appoggiava essenzialmente alla denuncia della sproporzione fra la “situazione reale” e le misure emergenziali adottate, ampliate “oltre ogni limite”. La tesi, in sé, non era e non è nuova. E’ probabile che anzi Agamben veda nei fatti recenti solo una conferma clamorosa di quanto osservava già in Homo sacer, il suo libro più influente, che risale al 1995. Ovvero: che la politica è oggi biopolitica, che cioè il potere si esercita essenzialmente sulla vita biologica. Che questo impone nuovi compiti allo stato, e un nuovo status alla scienza medica. Che sotto questo aspetto c’è una “contiguità” fra democrazia di massa e stati totalitari, che può essere illustrata così: “è come se, a partire da un certo punto, ogni evento politico decisivo avesse sempre una doppia faccia: gli spazi, le libertà e i diritti che gli individui guadagnano nel loro conflitto coi poteri centrali preparano ogni volta, simultaneamente, una tacita, ma crescente iscrizione della loro vita nell’ordine statuale, offrendo così una nuova e più temibile assise al potere sovrano da cui vorrebbero affrancarsi”.

     

L’analisi del potere di Agamben rende irrilevante il mutamento della forma costituzionale nel passaggio dallo stato democratico allo stato totalitario. La complessa rete di agenzie, istituti, enti pubblici e privati che ci dice qual è la situazione reale. La fiducia intorno a quei soggetti costruita  essenzialmente grazie a due cose: i poteri pubblici da un lato, il mercato dall’altro 

   

 La lettura meticolosa di questo passaggio chiave del libro di Agamben porterebbe molto lontano: il potere vi compare solo come potere sovrano, che l’individuo non vuole dividere o condividere, ma da cui vuole solo liberarsi; la lotta di emancipazione, condotta in nome dei diritti individuali, non approda a nessuna vera liberazione e anzi pare risolversi in una tragica beffa. Come l’uomo finito nelle sabbie mobili quanto più si agita tanto più sprofonda, così la rivendicazione moderna dei diritti soggettivi si rivela soltanto un modo per consegnarsi più intensamente nelle mani dello stato e dei suoi apparati istituzionali. In effetti: vuoi vederti riconosciuti il diritto allo studio? Devi accettare l’obbligo scolastico. Vuoi vederti riconosciuto il diritto alla salute? Devi accettare il libretto sanitario (e oggi la tessera sanitaria elettronica: chissà perché la tessera sanitaria non ha fatto inalberare nessuno. Eppure ne raccoglie, di dati). E così via: per avere agevolazioni fiscali devi presentare un mucchio di documenti, e per accedere ai servizi della pubblica amministrazione ora devi dotarti dello Spid: l’iscrizione della vita nell’ordine statuale, come dice Agamben, è davvero crescente. E però, per il filosofo, è ancor “più temibile” oggi che nel primo Novecento. L’analisi del potere che il filosofo propone rende infatti il mutamento della forma costituzionale, nel passaggio dallo stato democratico allo stato totalitario, praticamente irrilevante, come se non contasse nulla l’ordinamento giuridico in cui è iscritta la nostra vita e, in breve, chi raccoglie i nostri dati e sotto quali vincoli, garanzie, controlli.

    
Questa linea critica, con l’annesso pregiudizio nei confronti del potere (senza qualificazione o distinzione giuridica di sorta), è più diffuso di quanto si pensi, sotto diverse latitudini politiche e culturali. In Francia, un giovane filosofo liberale, Gaspard Koenig, denuncia con vigore il moltiplicarsi delle misure eccezionali, e parla del pass sanitario come dell’inizio di una distopia da incubo (va detto pure che ha appena fondato Simple, un movimento politico anti-statalista nella terra dello statalismo). A sinistra, il leader di France insoumis, Jean-Luc Mélenchon, prende così la parola in seno all’Assemblea nazionale: “Si dice che l’imperatore Caligola fece senatore il suo cavallo. Testava la resistenza del Senato. Emmanuel Macron fa la stessa cosa col pass sanitario: testa l’attaccamento dei francesi alle loro libertà”. In Germania, l’eccentrico filosofo conservatore Peter Sloterdijk cita Agamben con approvazione e commenta: “In stato di emergenza, lo stato si toglie i guanti di velluto con cui normalmente tratta i suoi cittadini. Lascia che si veda il pugno di ferro sotto il guanto, si mostra ridotto al puro potere esecutivo”. La sfumatura ulteriore (che c’è in Agamben), per cui lo stato di emergenza dichiarato è solo un pretesto, qui non si fa esplicita, ma resta l’idea che la separazione dei poteri e le garanzie costituzionali sono arretrate paurosamente, colpevolmente, irreparabilmente. Come se fosse stata sciolta la Corte costituzionale, tacitata la libera stampa e chiuso a doppia mandata il Parlamento. 

   
Intendiamoci: uno stato di emergenza prolungato mette comprensibilmente in allarme i giuristi. L’adozione di provvedimenti restrittivi delle libertà, per ragioni di salute pubblica, non lascia indifferenti i costituzionalisti. Ma l’intero dibattito risulta falsato, se si omette di considerare il punto di partenza: quella che Agamben chiamava, sottostimandone abbondantemente la gravità, la “situazione reale”. Occorre allora domandarsi qual è la situazione reale. E, prima ancora di ciò, essendo filosofi, chiedersi come si stabilisce che questa o quell’altra è davvero la situazione reale. A sentire (spesso) Massimo Cacciari in tv, sembra che basti trovare uno straccio di esperto in rete che semini qualche dubbio su questa o quella misura per dichiarare che le cose non stanno affatto come l’informazione di regime pretende che stiano. (Bisogna, peraltro, avere avuto scarsa o nessuna esperienza dei regimi illiberali per usare così disinvoltamente la parola, ma sorvoliamo). In realtà, a dirci come stanno le cose non è un’osservazione diretta, un caso individuale, un filosofo barbuto o uno sciroccato di cui il filosofo barbuto abbia colto una dichiarazione in rete (mi si perdoni, ma il modo in cui Cacciari crede di snocciolare in tv dati o dichiarazioni, a volte sbagliando i numeri e inventando i nomi, è veramente desolante). A farlo è invece un’istituzione, perché la realtà non ha una taglia individuale e non si confà alle nostre idiosincratiche opinioni. I filosofi pragmatisti à la James, che citavo prima, la dicevano così: l’esperienza è un fatto sociale, non psicologico-individuale. E’ per questo che a dirci qual è la situazione reale – ecco il punto – non è il singolo individuo – giusto per esemplificare: “Da mesi non prendo più la pillola per la pressione, non mi è successo nulla, lo vedi che è tutto un trucco dell’industria farmaceutica per vendere farmaci?”: ah, com’è difficile far entrare nelle nostre teste un po’ di statistica!

 

E’, invece, una complessa rete di agenzie, istituti, organizzazioni, enti pubblici e privati. E non è che il singolo individuo non ce la faccia solo quando ne va della salute pubblica. Basta dare un’occhiata a una qualunque etichetta di un qualunque prodotto in vendita in un qualunque centro commerciale: vi si leggono una serie di informazioni sul cibo che mangiamo, o sull’acqua che beviamo, o sul capo di abbigliamento che indossiamo. Etichette, bugiardini, cartellini, foglietti illustrativi: questo è il mondo in cui viviamo. Le informazioni che questi fogli contengono ci dicono come stanno le cose, perché sono validate da soggetti preposti, abilitati a farlo. Se non si fosse costruita fiducia intorno a quei soggetti – grazie essenzialmente a due cose: i poteri pubblici da un lato, il mercato dall’altro –, dovremmo tornare tutti ad ammazzare il maiale in casa (detto, però, da uno che l’apprezzava molto). Possono ovviamente esserci falle, oppure truffe, o messaggi meramente propagandistici: per questo occorre una società civile e pubblica attenta e consapevole, aperta e democratica (checché ne dica Agamben, fa la differenza, e come se la fa), la quale controlli e, all’occorrenza, sanzioni. Ma di sicuro non basta fare aprioristicamente professione di dubbio, o sventolare qualche rapporto di va’ a capire chi, pescato chissà dove, per bollare come dogmatica e autoritaria la cosiddetta “verità ufficiale”. Non è che la scienza sia una cosa seria: è serio e articolato tutto il mondo della verità pubblica, in cui per nostra buona sorte viviamo. E di cui, in genere, ci fidiamo. (En passant: sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, sentenziava Carl Schmitt, il giurista del Reich, e dopo di lui ripetono in tanti. Vale a dire: non importa se la situazione sia realmente eccezionale, che lo sia lo decide il sovrano. Però vediamo: viviamo forse sotto un potere che cambia le etichette ai prodotti in commercio? Non mi pare. Viviamo piuttosto in un paese in cui la necessità dell’etichettatura mette un bel po’ di limiti al sovrano di turno, ed è un gran bene che sia così).

  
Al 30 novembre, circa il 43 per cento della popolazione mondiale è vaccinata con due dosi. Ma dentro quel numero vi sono situazioni molto diverse. La differenza più eclatante: all’Africa, che rappresenta il 17 per cento della popolazione mondiale, è andato finora solo il 3 per cento delle dosi somministrate; nel resto del mondo, il numero di dosi somministrate supera invece la corrispondente quota di popolazione. Cosa se non l’arretratezza sociale, economica e politica, spiega questo dato? Ma differenze importanti corrono anche all’interno dei continenti. In Europa, è ricomparsa la cortina di ferro: i paesi che un tempo aderivano al Patto di Varsavia sono significativamente più indietro rispetto ai paesi occidentali. Solo per fare qualche esempio: secondo i dati dell’Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control), la Spagna ha vaccinato con doppia dose il 74 per cento della popolazione, l’Italia il 73,3 per cento, la Germania, che vive una crisi drammatica, il 68,4 per cento.

  

Superiamo il confine: l’Ungheria è al 59,3 per cento, la Romania al 38,3 per cento, la Bulgaria a 25,6 per cento. In Russia, dove pure è stato sviluppato un proprio vaccino, sono intorno al 40 per cento della popolazione: che cosa, se non la diffidenza nei confronti delle istituzioni pubbliche, dopo decenni di socialismo reale, spiega una così marcata differenza? Hai voglia a invocare la scienza: sei nel paese che, sotto Stalin e il compagno Trofim Denisovich  Lysenko, presidente dell’Accademia Lenin di Scienze agrarie, rifiutava come fesserie propalate dal capitalismo imperialista la selezione naturale di Darwin e la nozione mendeliana di gene. Se c’è voluta la destalinizzazione per tornare alla genetica tradizionale, dopo mille persecuzioni e mille disastri, non meraviglia che la terza dose di Putin non è detto che basti. Il presidente ha incontrato il vice direttore del Centro nazionale di epidemiologia e microbiologia, Denis Logunov, che gli ha suggerito di assumere anche il nuovo vaccino per via nasale, e si è sentito così bene da potersi allenare senza problemi: chissà che in questo modo la gente non si convinca.

    

Ma forse l’invito a vaccinarsi sarebbe ancora più persuasivo se i russi potessero pensare che il mondo non è regolato solo dagli stati, che esiste una trama di istituzioni sovranazionali, e di corti internazionali, che ha titolo per interloquire con i poteri statali, che insomma vi è una pluralità di soggetti, che in forme diverse, più o meno intense o efficaci, ha voce in capitolo su norme, regolamenti, comportamenti. Se invece c’è solo Putin, resterà pure la fascinazione per il Cremlino e l’uomo forte che lo abita, ma peserà anche una sperimentata, pluridecennale diffidenza verso il potere.

   
In qualche misura almeno, noi europei di questa parte d’Europa l’abbiamo superata, e un tal superamento non è affatto una caduta di spirito critico: semmai, è la scelta di aver costruito dei presidi indipendenti per tenerlo vivo. I cultori della Realpolitik hanno tutte le ragioni del mondo per farsi beffe di internazionalisti e globalisti vari: al dunque, dicono, interessi nazionali e poteri sovrani sono i soli che rimangono sulla scena. Però quando aspettiamo l’approvazione di un nuovo farmaco, a noi europei di questa parte d’Europa tocca aspettare il via libera dell’Ema (dove ha sede l’Ema? Come mai non tiriamo più in ballo la questione del livello di prossimità delle istituzioni europee?), prima che si pronuncino le agenzie domestiche: è difficile non considerarla una forma di garanzia, un’articolazione dei poteri e dei saperi più affidabile delle Accademie sovietiche delle scienze e, in breve, una tutela per i nostri diritti e le nostre libertà.

  
“Libertà va cercando ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta”. E’ vero: per la libertà si può persino rifiutare la vita, in un gesto grande e tragico, come il Catone a cui si rivolge ammirato Virgilio, nella Commedia. Ma aver cara la libertà significa anche averne cura, e costruire il contesto politico e istituzionale in cui vive, più salda e duratura di semplici, idiosincratiche opinioni. Certo, ad esse si può anche rimanere tenacemente aggrappati stimandole più preziose di ogni altro bene al mondo: non dicevano gli antichi, non ripeteva Montaigne, all’alba della modernità, che chi impara a morire disimpara a servire? La storia offre molti mirabili esempi di resistenza al potere fondati su un’incoercibile libertà spirituale (che però non vanno confusi con pasticciate comparsate televisive, che non preludono ad alcun martirio). Ma la lezione di Croce, che De André amava ripetere – dopo i 18 anni continuano a scrivere due categorie di persone, i poeti e i cretini – vale per tutte le solitarie sentinelle che scrutano pensose l’oscurità in attesa che finisca la notte. Accettano coraggiosamente di passare, per una volta, per stupidi. Per questo, se non altro per questo, conviene tenerci care anche le istituzioni libere della nostra, ammaccata democrazia costituzionale.