Claudio Furlan/LaPresse 

Privilegi piramidali

Gerarchia ragionata di chi può ridere di chi fra galli dominanti e polli reietti

Guido Vitiello

L’“ordine di beccata” nelle società complesse: esclusa una élite di superprivilegiati e una popolazione fatta di paria assoluti, quasi tutti sono oppressori di qualcuno e oppressi da qualcun altro

Sono il primo ad ammettere che faccio ridere i polli – e intendo il riferimento avicolo in senso molto letterale. Prendete l’articolo della settimana scorsa: ironizzavo su un cartello che vaticinava la fine del potere maschio, bianco, etero, cis e non disabile. Proprio io, che sono un maschio bianco, etero, cis e non particolarmente disabile! Nel pollaio scanzonato del Foglio l’avrei passata liscia, ma in altri e più chioccianti cortili, dove si raspa assiduamente alla ricerca di qualcosa o qualcuno da beccare sulla testa piumata, questa coincidenza non è passata inosservata: “Perché l’ironia funzioni da grimaldello chi la usa deve trovarsi in posizione subalterna all’interno di una gerarchia. Al contrario, ciò che si ottiene è una grottesca manipolazione del punto di vista, in cui emerge il capetto che bullizza i più deboli”, ha scritto Claudia Boscolo su Jacobin Italia. 

L’obiezione non è del tutto peregrina, come si apprende dallo studio delle società di polli. Lo psichiatra William F. Fry, in un geniale saggio sull’umorismo (“A sweet folly”, 1963), suggerì che gli umani usano le battute di spirito come i polli le beccate, ossia per sancire gerarchie di potere e stabilire interazioni di aggressione-subordinazione. La piramide dell’oppressione, strutturata in base al cosiddetto “ordine di beccata”, ha in cima la gallina-zarina, che becca chi le pare; sotto di lei c’è un’oligarchia di galline che possono beccare tutte le altre fuorché l’intoccabile sovrana; alla base, poveretta, c’è la lumpen-gallina che le busca da tutte. Anche tra noi bipedi implumi valgono criteri tutto sommato analoghi, come sappiamo fin dai tempi della scuola. Il bullo della classe – Nelson Muntz, ne “I Simpson” – può prendere in giro chi vuole, e tutti rideranno alle sue battute come segnale di sottomissione; se il quattrocchi sfigato – diciamo Milhouse – proverà a prendere in giro il suo tormentatore, invece, non troverà facilmente la complicità dei compagni. 

Via via che ci allontaniamo da società semplici come il pollaio o la quarta elementare, tuttavia, le gerarchie si fanno più intricate. Certo, c’è il miliardario Donald Trump che dal palco della campagna elettorale fa il verso a un cronista disabile, o l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, che sghignazza sulla “fottutissima zingaraccia”, due esempi perfetti della relazione bullistica tra galletti dominanti e polli reietti; ma converrete che, per quanto spregevoli, sono casi-limite. Proviamo però a prender per buona l’idea-guida che la sola ironia politicamente legittima sia quella rivolta dai gerarchicamente subalterni ai superiori, come insegnano fior di letture marxiste dei carnevali e delle feste popolari. Ebbene, come si individuano le gerarchie? La lotta perenne tra classi di oppressori e oppressi di cui parla il Manifesto del 1848 è visibile a occhio nudo nella pollocrazia, ma nelle società umane può creare dilemmi molto concreti: una volta fatto l’uovo della Rivoluzione, per esempio, che farsene dei kulaki? Sono oppressori o oppressi? Il contadino arricchito può raccontare barzellette sui contadini poveri? Benissimo, ci dicono, trasformiamo la tradizionale lente classista in un bel prisma, ed esercitiamo la vista sul cartello della manifestante. Scopriremo che l’oppressione attraversa molti assi – genere, classe, razza, orientamento sessuale, abilità – creando gerarchie complesse che vanno analizzate caso per caso, mettendo le spunte necessarie alla checklist intersezionale. Ma vedremo anche che, esclusa una élite di superprivilegiati integrali e una popolazione più o meno vasta di paria assoluti, quasi tutti sono oppressori di qualcuno e oppressi da qualcun altro, privilegiati sotto un aspetto e svantaggiati sotto un altro. Quanto alle battute, non sono battute ma “microaggressioni” – un termine perfetto per descrivere i furtivi colpetti di becco del nostro metaforico pollaio – e, si sa, le aggressioni vanno denunciate. 

In conclusione, chi può beccare chi? Altro che kulaki, qui nascono ogni giorno inghippi di difficilissima soluzione, utili a fornire quaestiones per la scolastica pedante dei problematizzatori e degli svisceratori da social network, e per la loro casistica tutt’altro che indulgente. Può Dave Chappelle, comico nero, fare battute sulle persone trans? Può l’ebreo Jerry Seinfeld ironizzare sui gay? E ho fatto bene, io, a ridere alle battute dell’uno e dell’altro? Ora che il quadro teorico è completo, cari i miei venticinque polli, non è difficile trovare la risposta: si tratta solo di consultare le quotazioni aggiornate della borsa-privilegi intersezionale, per poi stabilire la mia quotazione, la quotazione del battutista e la quotazione della categoria irrisa. In quanto maschio bianco etero cis non disabile do quasi per scontato che non mi sarà permesso ironizzare su nessuno, a meno che il bersaglio non sia un maschio bianco etero cis non disabile miliardario. Ma anche nei rari casi in cui concluderò che mi è consentito ridere, credetemi, me ne sarà passata la voglia.