non solo questione di green pass

La disobbedienza ha un senso se poi se ne accettano le conseguenze

Antonio Gurrado

La pletora di disobbedienti proliferati grazie al Covid nutre un'idea bizzarra di libertà, in cui si sottintende che il cittadino possa rinunciare a ciò che lo stato gli presenta come oneroso senza mollare un’oncia dei vantaggi che lo stesso stato gli assicura

"Disobbedienti" è l’aggettivo che di frequente accompagna chi protesta contro il green pass, forte di un precedente storico di rilievo quando viene accostato agli accademici che si mostrano apertamente critici. Dal docente di Napoli che associa il qr code al nazismo, al professore di Bologna sospeso per non aver voluto mostrare il green pass (per tacere di un uomo altrimenti sensato come Alessandro Barbero che lo fa rientrare nei “certificati di obbedienza” utilizzati da governi autoritari), è inevitabile sentire l’eco del rifiuto opposto nel 1931 dalla dozzina di professori universitari che non volle giurare “di essere fedele al re, ai suoi reali successori e al regime fascista”. 


La disobbedienza viene presentata come obiezione di coscienza; per usare i termini della disamina di Natalino Irti in Viaggio tra gli obbedienti (Nave di Teseo), si tratterebbe di un rifiuto dell’obbedienza “per legittimismo”. Quando si obbedisce a una norma, si presuppone la legittimità di chi la promulga, creando così una intercapedine sottile ma decisiva rispetto alla mera legalità. Irti fa l’esempio di Luigi XVI: nel momento in cui venne decapitato, assieme alla sua testa cadde anche il principio di legittimità dei sovrani derivato dal diritto divino, rendendo di fatto inattuabili le leggi emanate su questa base. La disobbedienza dei no green pass presupporrebbe dunque un mancato riconoscimento della legittimità della normativa o, per estensione, di chi la scrive e di chi la fa applicare.


Questo tipo di obiezione, tuttavia, di per sé non regge. Dei vari tipi di obbedienza analizzati da Irti – per paura, per scambio vantaggioso, per amore – quello che in realtà abbiamo esercitato con montagne di pazienza dall’inizio della pandemia è piuttosto il derivato di un imperativo ipotetico: se vuoi salvaguardare la salute tua e altrui, se vuoi che l’emergenza finisca il prima possibile, allora devi restare in casa, indossare la mascherina, vaccinarti, mostrare il green pass. Contestando il green pass, i disobbedienti mettono in dubbio questo imperativo ipotetico (volutamente o involontariamente), delegittimando non l’azione politica ma il principio scientifico che la orienta.


Ancora più in crisi sembra un altro tipo di obbedienza individuato da Irti, quella per cittadinanza. Ogni cittadino sceglie di obbedire a una norma a seguito di una motivazione interiore. Maggiore diventa l’individualismo, minore si fa il senso di cittadinanza e, con esso, l’idea che a determinate norme si debba obbedire perché non siamo sempre ed esclusivamente i giudici più affidabili riguardo al bene altrui. “Esser cittadino non serve più a spiegare l’obbedienza”, scrive Irti; è perché dubbi e capricci dell’ego hanno sopraffatto la fiducia nel bene comune.


Colpisce soprattutto, nella pletora di disobbedienti proliferati grazie al Covid, come sorvolino su un caposaldo del diritto moderno: la “libertà di andarsene”. Se, all’interno di un sistema politico democratico, le normative approvate dalla maggioranza non vengono ritenute soddisfacenti, nulla vieta di costruire un’alternativa più confacente altrove. Gli statali contro il green pass provano scandalo invece proprio a causa di contromisure come la sospensione dal lavoro e il mancato versamento dello stipendio: sottintendono che il cittadino debba essere libero di andarsene solo parzialmente, rinunciando a ciò che lo stato gli presenta come oneroso ma non mollando un’oncia dei vantaggi che lo stesso stato gli assicura.


Irti non parla del green pass poiché il suo lucidissimo saggio è stato pubblicato prima che potessimo immaginarcelo. C’è però una pagina che trovo illuminante in quanto data il momento in cui forse abbiamo iniziato a sentirci in diritto di diventare tutti un po’ disobbedienti: è il 27 marzo del 2020, quando il governo Conte II ha varato un decreto di centoventitremila parole, pari a quindici volte la Costituzione. Una legge-monstre, scritta in un italiano che non voglio ricordare, fa venire meno il presupposto dell’obbedienza, ossia la “omogeneità linguistica” fra chi comanda e chi riceve il comando. Hobbes diceva che “i comandi devono essere significati con segni sufficienti, perché altrimenti non si sa come obbedire”. Quando un governo si rifugia nell’incomprensibile, danneggia la credibilità della legge anche a lungo termine.

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