Il Duomo di Milano (Foto Unsplash)

Dal sushi alla moda

“Milano capitale” di qualsiasi cosa nasconde un piccolo dispiacere

Arnaldo Greco

Una formula abusata, buona per reggere praticamente tutto e rivendicare con orgoglio qualsiasi iniziativa. Ma soprattutto rivelatrice, di rammarico o amarezza, perché la vera "capitale", tante volte, sta da un'altra parte

Si legge in questi giorni “Milano capitale del clima” e così ci concentriamo, giustamente, tutti sul “clima”, ma varrebbe la pena spendere due parole anche per “Milano capitale”. Perché, ormai da anni, “Milano capitale” viene usato in forma autonoma, buona per reggere praticamente tutto: “Milano capitale del sushi”, “Milano capitale del polo femminile”, “Milano capitale degli showroom”, “Milano capitale sentimentale”, “Milano capitale dei film più premiati” – da leggere tutti di corsa come una lunga anafora – e poi ancora “capitale degli alpini”, “degli e-sports”, “delle truffe via internet”, “della ripartenza”, “dei cavalli” e decine di altri ancora. 

 

 

È vero che “capitale” dopo il nome di città è ormai comodo un po’ ovunque per riassumere il senso di una notizia ed è altrettanto comodo per rivendicare con orgoglio qualsiasi iniziativa, ma la frequenza di “Milano capitale” racconta anche qualcosa in più. È un indizio del dispiacere per non essere davvero capitale, innanzitutto, perché “della moda” o “del design” per restare a titoli onorifici più celebrati che “capitale delle gang salvadoregne” o “delle donne manager” (sia chiaro: tra virgolette ci sono solo titoli davvero apparsi) non basta comunque. Neanche “capitale economica” è sufficiente se non riportata su documenti ufficiali come gli specchietti con le informazioni di Wikipedia o i sussidiari scolastici o se nessuno si confonde davvero, come succede con i Paesi Bassi, di cui non ci si ricorda mai bene come funzioni tra Amsterdam e L’Aia o con la Turchia di cui tutti possono dire: sì, la capitale è quell’altra là però lo sanno tutti qual è la città più importante. Poi ci si è messa anche la riforma che, dal 2010, ha reso ancora più visibile “Roma capitale” – o nel suo verso oscuro “Mafia Capitale” – rinnovando quella competizione che agli occhi di chiunque non sia originario di una delle due città sembra solo una faida da scuole elementari che si protrae da troppo. E per onori, a volte, poco più che simbolici. 

 

Nel 1990, l’europarlamentare leghista Francesco Speroni portò fino alla Commissione dell’allora Cee la richiesta di revoca dell’odioso privilegio in base al quale “Roma” poteva apparire per esteso sulle targhe automobilistiche, mentre “MI” e le altre risultavano abbreviate. Ma Bruxelles (che, intanto vale la pena ricordarlo, non è proprio la capitale dell’Ue e, comunque, lo sarebbe con la città del Lussemburgo e con Strasburgo) fu sorda a tali richieste. Nel frattempo, le targhe delle auto sono cambiate, ma “Roma” c’è ancora perché Rovigo s’era assicurata già “RO”, e “RM” forse rappresentava un abbassamento di status eccessivo in un colpo solo.

 

Anzi da che s’è aggiunto quest’ulteriore status symbol di “Roma capitale” che ormai appare sulle divise, sugli stemmi, perfino su certe monete e francobolli e sui cestini di ultima generazione (accanto a SPQR), a Milano non resta che competere diventando capitale delle cose più disparate – una pagina Instagram chiamata proprio “Milano capitale di cose” raccoglie decine di altri esempi vertiginosi: “capitale europea dei playground”, “della simulazione virtuale di veicoli”, “del 5G”, “delle analisi”, “dei brevetti”, “dei viaggi pet friendly”, “del bitcoin”, “della casa condivisa”, “della nautica”, “del fare”. Tutti discendenti dell’originario e più noto di tutti – risale all’Ottocento – “Milano capitale morale”, con buona probabilità unico titolo realmente significativo e, allo stesso tempo, quasi del tutto svuotato di senso. (O forse no, se si guarda alla qualità dei rivali in gioco). 

 

Ogni tanto qualche articolo rievoca pure il momento storico in cui Milano scippò per davvero a Roma il titolo di capitale dell’Impero Romano d’Occidente, per un centinaio d’anni tra terzo e quarto secolo, come se la cosa, ormai, possa essere letta non solo come uno strano-ma-vero e per riscoprire una vicenda storica trascurata, ma contenga anche una velata minaccia per un futuro imprecisato: attenti che giù una volta è andata così, “non ci mettiamo niente”.

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