Corrado Mantoni e Raffaella Carrà negli anni Settanta (LaPresse/Publifoto)

L'ombelico di Raffaella

Camillo Langone

Forse non tutti l'hanno presente (la Carrà tarda ha fatalmente velato la Carrà degli anni d’oro). Ma prima delle carrambate c’era la Venere di Bellaria, e i suoi balli

Sono a Bellaria ed è morta Raffaella Carrà, una coincidenza incredibile. Ne parlo con l’artista bellariese che sono venuto a trovare e mi dice: “Scrivi che era di Bellaria!”. Sì, certo, però secondo Wikipedia è nata a Bologna. E lui: “Macché, era di Bellaria, i genitori abitavano vicino alle Poste, devono esserci ancora dei cugini…”. Magari si chiamano come lei, Pelloni: Raffaella Pelloni in arte Raffaella Carrà, per via di un regista televisivo amante della pittura che le consigliò il cognome del rivale di De Chirico. Il meno eufonico Pelloni è cognome romagnolissimo, si chiamava Pelloni uno dei simboli ufficiali della regione, presente finanche sul bollino del Consorzio Vini di Romagna (Sangiovese, Albana, Pagadebit, Trebbiano…): Stefano Pelloni in arte Passator Cortese.

 

Di sicuro da Bellaria andò via presto: altrimenti come diventava la regina della televisione italiana? Qualche volta, se non altro per rivedere i genitori, è tornata. Sicuramente nel 1987 per i funerali della madre, a cui era legatissima, celebratisi (leggo in un vecchio pezzo di Repubblica) nella chiesa di Santa Margherita. Sarà passata spesso davanti all’inconfondibile Casa Rossa di Alfredo Panzini che ho davanti a me ora. Mi è presa una fissazione per Alfredo Panzini, dimenticato bestsellerista primonovecentesco che trascorreva le estati qui, scrittore molto soggetto al fascino femminile che facilmente (il paese è piccolo) di Raffaella avrà conosciuto la mamma o una zia o la nonna Andreina, proprietaria di un chiosco in piazza.

 

Bellaria deve c’entrare qualcosa e più di qualcosa con la bellezza: forse non tutti l’hanno presente (la Carrà tarda ha fatalmente velato la Carrà degli anni d’oro) ma sto parlando di una Venere degli anni Settanta, con quei capelli, quella bocca, quel vitino di vespa, quell’ombelico, e il resto. Bellaria deve c’entrare qualcosa e più di qualcosa con la passione per il ballo: qui, sulla costa fra Rimini e Cesenatico, nel 1910 nacque la prima balera italiana, si chiamava Capannone Brighi, ci ha suonato anche Secondo Casadei, il padre di “Romagna mia”. Non che le coreografie della conterranea ricordassero molto il liscio, anzi. Di sicuro non “Prisencolinensinainciusol”, ballata allo spasimo insieme a Celentano in un programmone del sabato sera, “Milleluci”, ora pillola video talmente potente da diventare virale, poco tempo fa, sugli schermini di tutto il mondo.

 

Grazie a personaggi del genere, e a un regista come Antonello Falqui, la televisione italiana del 1974 trasmette ancora entusiasmo, brividi, erotismo, gioia. Poi in Rai dev’essere successo qualcosa di terribile… Sempre in quello strepitoso varietà la Romagna rientrò in gioco grazie all’accento, quando Raffaella cantò insieme a Mina e a Gorni Kramer la vernacolare, padanissima “Crapa pelada”: non sfigurò per nulla anche perché lombardo e romagnolo sono dialetti dello stesso gallo-italico ceppo. E concludo qui. Dovrei parlare della successiva Carrà signora dei fagioli e infine delle patetiche carrambate? Ma neanche per idea: io, da Bellaria, voglio ricordarla quando faceva danzare l’ombelico.

 

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).