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Raffaella Carrà era musica

Enrico Veronese

Non solo il Tuca tuca e Tanti auguri. Dopo essere stata interprete, la faccia italiana più nota in Sudamerica, è diventata essa stessa canzone, oggetto, testo e sottotesto

Da quando la politica pop dilaga nei network, non c’è elezione presidenziale che non trasformi la Rete in una pioggia di meme, con questa o quella star dello spettacolo seduta al Quirinale. Nel gennaio 2015, mentre i seri stavano eleggendo Mattarella, i faceti aprivano pagine Facebook per candidare Raffaella Carrà, riconoscendone il valore “istituzionale” che avrebbe messo d’accordo tutte e tutti, in tempi di quote rosa. Fuor di boutade, uno scranno di senatrice a vita l’avrebbe pur meritato, Raffaella Pelloni da Bellaria: a completamento del cerchio da scandalosa e censurata (l’ombelico a Canzonissima, il Tuca Tuca più casto del bunga bunga) a rassicurante salottiera, interamente compiuto entro la tv generalista nell’arco di vent’anni. La Carrà ha accompagnato il Paese dalla repressione dei costumi alla libertà controllata, alzando i centimetri di gonna e l’aderenza delle calzamaglie senza mai essere troppo osé: ballerina e attrice, padrona di casa e icona di stile, è stata la prima di una serie di figlie e nipoti che -per forza di cose- non poteva far altro che imitarla, prenderla a modello, copiarla spudoratamente. Fin quando lei stessa, tra un’intervista e la cura di un programma, non ha deciso che fosse meglio invecchiare lontano dallo schermo, accreditandosi la sobrietà generazionale di chi non ha bisogno di rimanere sotto le luci dei riflettori.

Nell’immaginario collettivo Raffaella era entrata a cavallo tra i Sessanta e i Settanta: esplodono i consumi di massa, la tv in bianco e nero è ormai in tutte le case e il sabato sera gli autori di Canzonissima sfornano sigle a pronta presa, da cantare già l’indomani, affidandole alla bionda col caschetto. Brani pop perfetti, dal ritmo spensierato come “Chissà se va” e “Ma che musica maestro”, che prima di fare il giro e diventare pane intellettuale ad Anima Mia (1997) spaccavano le classifiche dei 45 giri e i juke box. La sua liaison anche professionale con Gianni Boncompagni trovò sublimazione quando, vent’anni dopo, le ragazzine di Non è la Rai riportano in auge tutte quelle hit scosciate, volendo essere la Carrà esse stesse: se cerchiamo qualcuno con cui prendercela per l’invasione dei tormentoni latini, prima di “Despacito” sappiamo di dover cercare tra “Fiesta”, “Que dolor” e “Pedro”, praticamente il meglio di Santa Fe.

Dall’essere interprete, la faccia italiana più nota in Sudamerica diventa essa stessa musica, oggetto, testo e sottotesto: Tiziano Ferro riempie già gli stadi quando incide “Raffaella è mia”, che balla e canta a casa sua, e non c’è nome più potente, non c’è nome più importante con la forza di "una canzone allegra, una canzone strega, che non puoi più dimenticarla, e non ti perdonerà".

Riconoscimento su scala planetaria tributato anche da Bob Sinclar, il re delle disco tamarre, che nel remix pompato di “A far l’amore comincia tu” la impone all’attenzione del premio Oscar Sorrentino, incastonandola per sempre nella terrazza di ballo di Jep Gambardella. Carrà fatta di musica, impastata di scouting: non poteva negarsi alla giuria di The Voice of Italy, talent vicario dove finge di non accorgersi di suor Cristina.

Gran dote, saper fingere: Raffaella Carrà è stata soprattutto la tigna di perfezionarsi e di arrivare, di non sbagliare, di mostrarsi impeccabile. Non era la bellezza assoluta, ma rappresentava (specie all’estero) tutto ciò che una donna italiana poteva promettere: doti che avvinsero anche Frank Sinatra, lungi dall’essere appaiati nella sigla del Telegattone il loro flirt fu sopito dalla volubilità della Voce. Per niente avvilita, Raffa ripiegò al numero dei fagioli da indovinare cercando invano di prendere la linea al numero 3139, a coccolare il cane Punto e il gatto Virgola, a ospitare ministri e Montezemolo nel candido divano di mezzogiorno, inventrice della “tv del dolore”. L’imitazione coeva di Gianfranco d’Angelo, con gli occhi irrorati di pioggia come i bambolotti del periodo, non la scosse più di tanto: alla fine degli anni Ottanta, anzi, Fininvest scippava alla RAI i top dello share come Baudo e la showgirl romagnola, i quali però non replicarono i numeri sfoderati (per pigrizia post telegiornale) dal primo numero sul telecomando, e tornarono a viale Mazzini per stravincere.

Fu Roberto Benigni, nel suo periodo matto in cui tutto gli era concesso, a cercare per l’ultima volta di squarciare il velo della distanza: era il 1991, e l’assedio all’origine del mondo -della Carrà, e di chi altre? Se devi giocare, fallo in grande- fu tanto vano quanto memorabile. Sotto una gragnuola di sinonimi regionali, coperta nell’assalto, Raffaella Carrà smise di essere donna e divenne Madonna.

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