La nazionale italiana agli Europei del 1960 (LaPresse) 

spazio okkupato

Gli Europei raccontano la nostra storia

Giacomo Papi

Le competizioni sportive, così come quelle canore, dicono molto del nostro passato, del presente e del rapporto che abbiamo con il tempo che passa. E ci fanno capire, a noi cittadini dell'Europa, che ormai siamo qualcosa di più che un insieme di nazioni

Gli Europei 2020 che iniziano domani, 11 giugno 2021, allo Stadio Olimpico di Roma, saranno il primo evento in differita della storia. A prima vista la differenza tra l’anno annunciato nel nome e quello in cui avranno luogo davvero sembra un fatto banale, ma in realtà è un evento epocale. Il Covid ha spezzato il qui e ora, l’unità di spazio e tempo, e affermato una volta per sempre che l’evento vale più della data e che le ragioni del marketing vincono sulle leggi del tempo perché il presente può essere registrato e andare in scena quando saremo pronti e spaparanzati sul divano. Uno dice, ma quante storie, l’Uefa ha semplicemente deciso di mantenere la data ormai programmata per gli Europei che l’anno scorso erano stati rimandati per il Covid. Una decisione del genere è stata possibile, invece, perché i confini del presente si dilatano quanto più si affina la nostra tecnologia per riprodurlo. La storia è diventata spettacolo, e il presente una scelta. Se grazie a una droga, a un chip o a una caduta da cavallo come accade a Funes el Memorioso nel racconto di Borges, potessimo rivivere ogni sera le sensazioni provate alla nascita, quelle sensazioni sarebbero presenti o passate? E’ uno di quegli snodi tecnologici che spalancano paradossi se mostrano quanto labili siano le convenzioni che definiscono ciò che chiamiamo reale.

Un altro, dice, uffa, ma si tratta soltanto di 51 partite di calcio tra 24 nazionali! E’ la sedicesima edizione di un torneo cominciato nel 1960 in Francia con la vittoria per 2 a 1 dell’Urss contro la Jugoslavia, e proseguito fino a oggi con cadenza quadriennale. E’ vero, a patto di ammettere che il mirabile riassunto dimostra proprio quello che intende contraddire, e cioè che le competizioni sportive, così come i concorsi canori, sono un modo per raccontare la storia e vedersela scorrere davanti agli occhi. Urss e Jugoslavia che si sfidarono in Francia nel 1960 (Galić al 43°, Metreveli al 49° e Ponedel’nik al 113° dei tempi supplementari) raccontano, infatti, l’Europa divisa in due blocchi e la potenza delle nazioni comuniste che oggi non esistono più. Gli Europei di calcio, come i Mondiali o le Olimpiadi, sono il sussidiario sul quale intere generazioni hanno imparato quel poco che sanno del mondo e assorbito politica ed etnografia, ma soprattutto storia e geografia. Lo sport tra nazionali non è soltanto la prosecuzione della guerra con altri mezzi, è anche il modo con cui nel Novecento i nazionalismi dell’Ottocento si misero in scena come spettacoli di massa, donando all’astrattezza di confini e bandiere una concreta dimensione epica e umana, lo spettacolo con cui le ideologie del Novecento raccontarono la propria potenza e che il capitalismo trasformò in denaro.

Guardare gli Europei 2020 nel 2021 dirà, per esempio, che per l’Europa quest’anno di Covid è un anno perso, un’interruzione che è meglio fingere non ci sia stata. Come il paese di Brigadoon nel film di Vincent Minelli preferiamo svegliarci ogni cent’anni. Questi Europei dicono anche, però, che l’Europa non si concepisce più soltanto come un insieme di nazioni – nonostante la Brexit e la presenza di Russia, Macedonia del Nord e Ucraina – perché per la prima volta il torneo non sarà ospitato da un’unica nazione, ma si svolgerà in undici città di un solo continente: Londra, Roma, San Pietroburgo, Baku in Azerbaijan, Monaco di Baviera, Amsterdam, Bucarest, Budapest, Copenhagen, Glasgow e Siviglia. E’ un processo di avvicinamento e curiosità, se non di familiarità verso le genti straniere, che iniziò negli anni Ottanta e proseguì con la globalizzazione, i viaggi low cost – un’amica irlandese sostiene che la guerra in Ulster finì quando i ragazzi di Belfast nel weekend, invece di andare al pub,  volarono a ubriacarsi a Ibiza – l’Erasmus, le tv via cavo, Internet e la Playstation che hanno confuso i confini.

Mi piace pensare, però, che la formula itinerante di quest’anno sia legata anche al modo con cui l’Europa ha reagito all’epidemia, ma soprattutto al fatto che il virus, colpendo tutti, ha dimostrato che le persone si spostano, baciano e sputacchiano addosso perché vivono e muoiono insieme. Perché sono legate. Tempo fa lessi di uno studio sul Dna secondo cui due europei qualsiasi – l’ala finlandese Lassi Lappalainen e il difensore ungherese Bendegúz Bolla, il centrocampista turco Abdülkadir Ömür e l’attaccante del Sassuolo Giacomo Raspadori – condividono almeno un antenato negli ultimi mille anni. Anche Italia-Turchia – la prima partita che si giocherà domani sera all’Olimpico – non sembra essere stata scelta per caso, dopo lo scontro tra Mario Draghi e Recep Tayyip Erdogan. Dice che l’Europa nasce intorno al Mediterraneo e che su quel mare si deciderà tra diritto e dittatura, crociate e convivenza, si deciderà cioè se essere all’altezza del progetto di civiltà, anche nei confronti di chi arriva, che ha generato e rigenerato l’Europa. Gli Europei siamo noi.

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