Si chiama Ferragni l'antidoto più efficace al michelamurgismo

Claudio Cerasa

Conflitto di interessi dichiarato, femminismo sbugiardato, disintermediazione al servizio della mediazione. La forza di Chiara: essere non solo un’icona della moda ma anche un totem dell’antimoralismo

Dici Chiara Ferragni e pensi a mille cose insieme. Pensi alla forza di un nome, pensi alla forza di un’idea, pensi alla forza di un progetto, pensi alla forza di un brand, pensi alla forza di un business e pensi alla forza di un palinsesto costruito negli ultimi tempi quasi esclusivamente su una pagina Instagram. Chiara Ferragni significa mille cose tutte insieme e non c’è praticamente nulla che non si sappia della sua storia: è l’influencer più famosa d’Italia (22 milioni di follower su Instagram), è una delle influencer di moda più importanti del mondo (ogni post pubblicato e sponsorizzato le rende circa 60 mila dollari e solo 64 persone al mondo vengono pagate più di lei per un post), è il personaggio pubblico italiano che vanta il più alto numero di interazioni sui social (l’insieme dei suoi post arriva a sommare qualcosa come 74 milioni di interazioni), è a capo di un piccolo conglomerato di aziende che nel complesso vale circa 36 milioni di euro (Serendipity, proprietaria del marchio Chiara Ferragni Collection, prevede di arrivare nel 2025 a 15,4 milioni di euro di ricavi, con un Ebitda del 44 per cento e un utile netto di 4,4 milioni).
 

E la sua vita, complice anche il matrimonio con il cantante Fedez, viene seguita da un pezzo non irrilevante dell’opinione pubblica italiana con un’attenzione di poco inferiore a quella che potrebbe essere riservata a una famiglia reale (le nozze di Fedez e Ferragni, nel 2018, hanno avuto un numero di interazioni pari al doppio rispetto al royal wedding di qualche mese prima tra Harry e Meghan Markle). La storia di Chiara Ferragni merita però di essere messa a fuoco non solo per ciò che rappresenta dal punto di vista del business (venerdì scorso i vertici di Tod’s hanno scelto di inserirla nel consiglio d’amministrazione facendo salire in un solo giorno le azioni di Tod’s del 13 per cento) e se ci si riflette un istante c’è un aspetto affascinante che riguarda la sua traiettoria e che ha a che fare con una caratteristica non comune per un profilo come quello di Ferragni. Una caratteristica che potremmo provare a sintetizzare brutalmente così: l’essere un’icona non solo della moda ma anche dell’antimoralismo.

 

E’ possibile che il successo possa darle un giorno alla testa ma almeno finora va riconosciuto che Ferragni ha usato il suo potere di influenza, se così si può dire, senza scadere nel correttismo politico, senza accodarsi alla retorica del mainstream, senza cedere in nessuna occasione al michelamurgismo e senza usare mai la politica come un surrogato utile a rafforzare il proprio brand. Succede così che Ferragni, durante la sua ultima gravidanza, decida di farsi fotografare seminuda con il pancione e scelga di rispondere a chi la critica dicendo che “una donna è libera di mostrarsi come meglio crede e questa penso che dovrebbe essere la norma per ogni uomo, non l’eccezione”. Succede così che Ferragni, sfidando la più sciatta delle correnti del femminismo, rivendichi il diritto a utilizzare il suo corpo, “il corpo delle donne”, per fare business, per guadagnare soldi e per rafforzare la sua comunità. Succede così che Ferragni, che in fondo è una star figlia della stagione della disintermediazione, scelga di usare i benefici prodotti dalla disintermediazione innescata dal suo modello di business, tutto online, tutto digitale, tutto sui social, non per distruggere populisticamente i corpi intermedi ma per provare in alcuni casi a rimetterli in sesto (per esempio facendo la fortuna dei magazine a cui si concede per una copertina, per esempio facendo la fortuna delle aziende a cui si concede per sedersi in un cda, per esempio facendo la fortuna delle istituzioni e delle associazioni che sceglie di aiutare mettendo i propri follower al servizio di una campagna).

 

Succede così che Ferragni, sfidando la più sciatta delle correnti del politicamente corretto, non si vergogni a rivendicare il diritto di esercitare in trasparenza i propri conflitti di interesse (durante l’ultimo Sanremo Ferragni ha invitato i suoi follower a votare per il marito Fedez facendo indignare come spesso gli capita il partito della nazione del Codacons). Succede così che Ferragni, sfidando il partito unico della denatalità, scelga di trasformare il matrimonio (celebrato in chiesa) in un’esperienza da sballo al limite della trasgressione e scelga allo stesso tempo di raccontare la maternità (e la paternità) come un’esperienza fantastica non incompatibile con la vita complicata di una donna in carriera (i Ferragnez difendono anche i diritti delle coppie gay e ha fatto discutere la scelta fatta pochi giorni fa da Fedez di aver ospitato in una diretta Instagram il relatore della legge contro l’omotransfobia, Alessandro Zan, ma anche qui è interessante notare, al di là delle posizioni sul tema, come la famiglia Ferragni piuttosto che giocare a fare l’antipolitica provi a suo modo a fare un po’ di politica). E succede così che Ferragni, sfidando i bru bru del partito unico dell’anti casta, riesca a trasformare una storia potenzialmente imbarazzante (la nonna del marito è stata vaccinata a 90 anni solo a seguito di una serie di denunce fatte da Ferragni nelle sue stories su Instagram) in un’occasione per sensibilizzare la sua regione su un problema finalmente in via di risoluzione (Ferragni ha denunciato su Instagram quanto fosse assurdo che un diritto venisse trasformato in un privilegio e ha usato il suo seguito sui social per chiedere alla regione Lombardia di accelerare per evitare di calpestare i diritti degli anziani). Familismo spudorato. Conflitto di interessi dichiarato. Femminismo sbugiardato. Disintermediazione al servizio della mediazione. La forza di Chiara Ferragni in fondo è anche qui: l’essere non solo un’icona della moda ma anche un insospettabile totem dell’antimoralismo italiano. Ben scavato.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.