Razza tamarra

Narcisismo estremo, un camp libero e indefinito

Michele Masneri

Da Sanremo al Grande Fratello, dov’è finito il maschio italico?

Non c’è solo il caregiver in detox. Il capello ramato, la barbetta incolta, gli anelli, le giacchette strette, il jeans attillato: il caregiver aretino è solo una punta dell’iceberg di una mutazione più ampia, quella del maschio eterosessuale italico: sotto attacco da tutti i fronti, diciamolo una buona volta. Scisso tra la tentazione di abbandonarsi alla fluidità e la roccaforte identitaria della tamarraggine. L’identità non ammette vuoto ed è palese che mentre i Mäneskin e Achille Lauro e Tommaso Zorzi e i modelli di Alessandro Michele portano un nuovo tipo di mascolinità atossica nell’immaginario, il maschio tradizionale soffre e si interroga. 

  

Oltre al caregiver in detox, un altro sull’orlo di una crisi di nervi pare Stefano Massini, drammaturgo di massimo prestigio. Dopo la trilogia dei Lehman, ha fatto romanzi, saggi, articoli, e invece che godersi la vita è sempre più imbestialito: “io se non mi indigno non sto bene”, ha dichiarato in una delle ultime puntate di “Piazza Pulita”, dove più compare più si indigna. Nelle ultime puntate è tutto un crescendo di incattivimento contro: la chiusura dei teatri;  i centri commerciali che hanno spazzato via i contadini (vabbè); il maschilismo di varia specie. Massini è uno Scanzi più abbronzato, stessa tinta, stesso jeans elasticizzato, bigiotteria da impallare un metal detector. Ma perché è così indignato? “Io vivo di irritazione, io vivo di indignazione!”, ha detto, cercando di convincere alla causa anche una perplessa Alessandra Sardoni mettendosi, per richiamare l’attenzione sul caso della pallavolista incinta discriminata, un cuscino sotto il maglione a mò di pancia: imitando inconsapevolmente la Berté del Sanremo 1986.

 

Proprio a Sanremo, rituale identitario italiano, quest’anno non è andato in scena solo il crollo degli ascolti, ma anche quello del maschio: Fiorello e Amadeus cercavano di tenere in piedi la baracca del patriarcato come potevano, tentando di arginare e gestire l’invasione fluida. E si è visto com’è andata, un disastro, culminato con lo sbrocco finale, e la maledizione dell’altrimenti bonario Fiorello: mentre trionfavano vecchie icone gayssime, dalla Vanoni alla Berté. Intanto Leali steccava, come pure Aiello, nella Caporetto cisgender. 


Certo il patriarcato autoriale ci aveva messo del suo: invitando, a sostenere la causa, un maschione alfa come Ibra, con la pretesa di ricreare un effetto-Celentano. Il problema, però, è che anche un’icona di massima eterosessualità come  Ibra, impupato in quei completi, appariva  piuttosto un Liberace fuoriscala.  Nei momenti di “nero” poi gli spettatori erano invitati a passare a Tim con la prospettiva di vincere una crociera lunga un anno, pubblicizzata dalla moglie di Amadeus, Giovanna. Già, perché dopo un anno di lockdown, chi non vorrebbe farsi un anno di crociera con Ama e Giovanna? Magari con la prospettiva di rimanere incastrati nel canale di Suez. Ma già le sante coppie etero, benedette da Ama, erano state evocate durante uno dei “quadri” di Achille Lauro, con Claudio Santamaria a danzare con la propria sposa una tragica coreografia tarantiniana: il tutto, chiaramente, costituisce il più grave spot contro la famiglia tradizionale che sia andato in onda da anni.

 

Intanto però è evidente: è arrivato il momento di mettere in mezzo il camp. Il camp, secondo la sua codificatrice Susan Sontag,   “non è un modo naturale di sensibilità. La sua essenza  è il suo amore per l’innaturale: per l’artificio e l’esagerazione. E’ esoterico, una specie di codice privato, persino un distintivo di identità”. Il camp è esagerazione, è imitazione del mondo gay ma non necessariamente significa che è da gay. E’ una corrente che attraversa sotterranea l’uomo italiano, da Foscolo (secondo Gadda vanitoso e fiero soprattutto non delle sue liriche bensì del suo petto villoso) a D’Annunzio (per Arbasino “vedova d’Italia”, con le reliquie e le chincaglierie raccolte al Vittoriale), a Achille Lauro (il cantante, ma forse anche il comandante).

 

“Anche se gli omosessuali sono stati la sua avanguardia, il gusto camp è molto più del gusto omosessuale. Ovviamente, la sua metafora della vita come teatro è particolarmente adatta come giustificazione e proiezione di un certo aspetto della situazione degli omosessuali”, Sempre Sontag. Ovviamente poi c’è l’imitazione malriuscita del camp, che frana nel trash: e lì abbiamo i “quadri” di Lauro, che con voce ciancicata declama: “Sono il glam rock. Sono un volto coperto dal trucco. Sessualmente tutto. Genericamente gnente”. L’effetto, che si voleva drammatico e trasgressivo, richiama subito invece Emanuela Fanelli e le sue “Voci di donna”, o Manuel Fantoni, il mitomane romano di “Borotalco”.  

 

In mezzo a questi due estremi il maschio italiano è incerto: ognuno trova la sua nicchia. C’è il trapper-piangina alla Fedez, che pure sotto le vesti da uomo illustrato, al corpo inchiostrato da prima pagina, si mostra perfettamente a suo agio coi suoi lati fragili: specificamente piangendo, in continuazione (anche alla nascita della secondogenita Vittoria, giù lacrimoni, con la ormai classica reprimenda della consorte: “ma amoreee”). All’opposto, il boomer rintronato alla Leali (stecche a Sanremo, cazziate al Grande Fratello); oppure appunto l’indignato alla Massini, con un piede nella contemporaneità (il pancione) e l’altro nel lettino UVA. 

 

Tra pancioni e panciotti, il camp avvolge tutto. Perché implica il non voler invecchiare (“L’insistenza del Camp nel non essere ‘serio’, nel giocare, si collega anche al desiderio dell’omosessuale di rimanere giovane”.)  Così è camp il killer dei genitori altoatesino, palestrato e depilato, avvolto in un pellicciotto come uno scudiero di Ludwig di Baviera, che duecento anni fa l’avrebbe avuto come suddito e forse  assunto come guardiacaccia, evitando così la strage. Se confrontiamo il genitoricida tirolese con il suo omologo Pietro Maso, che trent’anni fa, il 17 aprile 1991, sterminò i genitori nella villetta di Montecchia di Crosara, si capisce che è stato compiuto, come dicono nei reality, “un percorzo”. Maso era meno levigato rispetto al modello maschile di oggi, ma  già lampadato e spinzettato, dunque innovativo per i tempi; si era infatti agli albori del metrosexual, definizione che arrivò solo nel 1994 a opera del giornalista inglese Mark Simpson, per identificare maschi fighetti e narcisissimi ma non gay.

 

Come spiegò a chi scrive, il concetto nasceva qui da noi: “l’ondata di metrosessualismo che ha invaso il mondo nell’ultimo decennio è stato semplicemente il resto del mondo che scopriva l’Italia e che diventava un po’ più italiano. Il narcisismo maschile e il desiderio di essere desiderato è alla base della metrosessualismo – e in Italia a differenza che nel mondo anglosassone questo non è mai stato veramente represso. L’Italia, culla di Michelangelo, Marcello Mastroianni e Dolce & Gabbana, non ha mai fatto finta che ‘bellezza’ fosse una parola che potesse stare lontana dalla parola ‘uomo’. Soprattutto nel sud Italia, i giovani maschi hanno spesso un modo di camminare estremamente femminile ma allo stesso tempo molto sicuro, che noi inglesi ci sogniamo. Se ci proviamo, finisce regolarmente in un patetico sculettamento”. 

 

Sud contro Nord, etero contro gay, tamarro contro borghese. Trent’anni dopo tutto è più sfumato:  così, nel “Grande Fratello Vip” da poco concluso, una specie di lockdown parallelo in quest’edizione durata 169 giorni, record battuto solo dal sequestro dei diplomatici americani a Teheran,  andava in scena soprattutto un interessante scontro tra diversi tipi di maschio italiano. Intanto i presunti vip erano entrati nella “casa” a settembre col governo Conte II: dunque col premier da Volturara Appula, e tutto il background di Padre Pio, calci sudati a pallone, conferenze stampa notturne con luce bluette, scatti rubati in spiaggia e gel e portavoci cubani, cioè un esecutivo che sembrava sceneggiato da Almodovar.

 

Ne escono con Draghi, governo europeista e presentabile, grande borghesia. L’ultima puntata vedeva proprio uno scontro tra queste due Italie: tra i due finalisti, Pierpaolo Pretelli, modello  e attore etero già studente di Giurisprudenza a Roma; glorioso figlio di Maratea, giovane  daddy con chiave di violino tatuata sul collo. Dall’altra parte quello che sarà poi il vincitore, Tommaso Zorzi, influencer  milanese, già catapultato in un altro reality, l’Isola, ma come opinionista.  Ora accusato di non battersi abbastanza per la causa gay e per aver cantato con Giorgia Meloni da Costanzo “Genitore Uno e Genitore due” invece di incalzarla sulla legge sull’omofobia e sul caso dei due giovani aggrediti a Roma nella fermata della metropolitana, Zorzi scandalizzò ai tempi qualcuno camminando sui tacchi; e però i più anziani si ricordano che già trent’anni fa, nel fatale ’94, Carl Lewis posava in tacco 12 rosso per la storica campagna Pirelli del “la potenza è nulla senza controllo” (è chiaro che il 1994 è un anno fondamentale per la mascolinità: nasce Forza Italia, e nasce anche Justin Bieber).

 

Ma andando con ordine, da Pirelli a Pretelli: quest’ultimo è decisamente più metrosexual di Zorzi, forse perché il Sud è camp di natura: comunque il voto popolare alla fine premia lui, forse  anche influenzato da Internet (stesso problema che si porrà poi a Sanremo coi sospetti di interferenza della macchina da guerra Ferragnez forte dei  milioni di followers votanti: tema dei più urgenti, altro che voto ai sedicenni). Ma il GF smascherando le vere o presunte identità di Gabriel Garko e della finta fidanzata Adua poi Rosalinda andava a scavare anche nel cuore nero del camp italiano e del Lazio  più misterico, nella factory Tarallo-Losito dove si andò a indagare. Poi, a GF finito, cominciava Sanremo, e lì, di nuovo, scontro e confronto tra gay innovatori e etero tamarri (mentre quell’“Ama”, detto in continuazione, a Milano soprattutto suonava molto familiare).

 

Il fatto è che il maschio tamarro è destinato per definizione al fallimento, perché cercando qualcuno da cui farsi guardare ha perso in partenza. “Il rapporto di scambio, a cui l’amore ha tenuto testa – almeno in parte – durante l’età borghese, ha finito per assorbirlo completamente; l’ultima immediatezza è sacrificata alla distanza reciproca di tutti i contraenti. L’amore è paralizzato dal valore che l’io attribuisce a se stesso. Il suo amore gli appare come un “amare in più”, e chi ama in più si mette dalla parte del torto”: è Adorno, mica Guido Maria Brera (altro maschio eterosessuale di massimo successo e interesse, col boccolo selvaggio e le tutine di cachemire per i book club estemporanei che allestisce sul divano di casa con la moglie Caterina Balivo).


L’ossessione di piacere, il metrosexual ce l’ha ma diversa, perché sta benissimo con se stesso: si porterebbe continuamente in esterna.  E se il collega del “Fatto” Peter Gomez ha detto che Scanzi sulla faccenda dei vaccini “invece di dare la notizia ha pensato di essere lui la notizia”, questa è solo una parte della verità. Scanzi non è infatti solo la notizia. Scanzi è medium e messaggio. Se potesse, si seguirebbe anche su Instagram, si manderebbe dei dickpic. Sul suo sito scrive: “Mi occupo di quasi tutto, e pare sia un difetto”. Poi c’è il mitico tweet del Mozart maturo. Nel 2016 una lettrice gli scrisse: “divino, divino, divino. io sono ammirata dalla sua scrittura. Momenti di assoluta bellezza secondi solo a una bella sinfonia del Mozart maturo”; e lui risponderà (che gigante): “bravissima. La forza dei miei pezzi sta soprattutto nella forma, nel ritmo, nella musicalità della scrittura. Lei è un’ottima lettrice, grazie”.

 

“Il narcisismo maschile è diventato molto più mainstream e accettato, quasi garantito, almeno dai più giovani”, diceva sempre Simpson. “E’ scontato, tanto che la parola stessa potrebbe finire presto dimenticata in un futuro non troppo lontano”. Per adesso continua a pronunciare il suo nome. Un altro importante Maschio Etero Contemporaneo, Fabrizio Corona (vera drama queen, non esistendo la versione maschile del vocabolo), ne è il caso più tragico: la mamma, l’altro giorno, ha lanciato un appello. Il figlio, dice, non può stare in carcere, poiché “ha una malattia psichiatrica: disturbo borderline con disturbo bipolare di tipo narcisistico associato ad una sindrome depressiva maggiore”. Non c’è niente da scherzare. E chissà poi quali colpe avranno i padri, o le madri, di questi maschi italici così in crisi: si parla sempre dei papà, infatti, ma mai delle genitrici. Ecco il papà di Scanzi, il Luciano Scanzi aka Orsogrigio (purtroppo il suo blog al momento è oscurato): e nelle foto, ha sempre un’aria più soddisfatta e felice, nella sua giacca di pelle, del figlio (oltre a sembrarne coetaneo. Da lì verrà tutta l’emulazione?).

 

E del papà di un altro maschio toscano fatale all’Italia, babbo Renzi, col cappellaccio e tutto, si è detto e scritto. Ma le mamme, le mamme: non servirà scomodare Gadda e le sue Cognizioni per capire come saranno state fondamentali le genitrici di questi maschi così drammaticamente innamorati di sé? Della mamma di Salvini per esempio non si sa nulla, e nemmeno del babbo: ma qui siamo di nuovo in una nicchia, il maschio alfa di scuola leghista, felpa e barba di tre giorni. E però, tra padri e figli, ecco un cortocircuito interessante, con l’ex ministro dell’Interno felice accanto alla giovane fidanzata Francesca Verdini, con corona d’alloro in capo: ne annunciava la laurea su Instagram.  E i followers, spietati o ingenui: “Quando si laureano i figli, è sempre un bellissimo momento”; “auguri alla figlia e al papà!”.

 

Salvini con il caregiver aretino ha in comune la passione per le dirette notturne: l’Aretino parla, si commenta (“perfetto, perfetto”), soprattutto balla, come un vecchio disk jockey dell’epoca delle radio libere (si metterà forse dei like). Salvini invece saluta, pilucca, mangia, vede che c’è nel frigo, da studente fuorisede. Ultimamente ha un’aria tristissima e sfatta. Si sa che dal maschio alfa all’incel, il celibe involontario incattivito, il passo è brevissimo. E così ecco lo straordinario tamarro che qualche giorno fa ha aggredito, saltando due binari della metropolitana a Roma, la coppia di ragazzi che si baciavano. E anche lì: jeans stretto, girocollo a pelle, borsello, prossemica da Mma ma con la panza. Il direttore dell’Avvenire rispondendo a una lettrice ha scritto che, insomma, baciarsi così nella metropolitana è proprio una cosa da maleducati. Una provocazione. In effetti, si rischia di ferire i fragili sentimenti del maschio tamarro italico, che poi dopo reagirà come può. Altro che legge Zan, insomma: serve una tutela dell’Unesco per il maschio italico. Che è messo malissimo. E, in molti casi, non può neanche permettersi un detox a Merano. 
 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).