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Dopo l'egemonia bulla, speriamo torni la satira di unità nazionale

Giacomo Papi

La risata è diventata il rito politico per esprimere il consenso dei ridenti intorno a un capo (comico). Ma come si riderà di Draghi?

Come si riderà di Draghi? Qualcuno lo rappresenterà come un automa a molla, altri come un santo, uno scolaro, un gesuita, un vanitoso, un prete, un banchiere, un preside. Gli si imputeranno, cioè, i peccati di cui si ha più paura e le colpe di cui più ci si vergogna. E’ plausibile anche che, avendo il sostegno di quasi tutti in Parlamento, sarà preso in giro da quasi tutti nella società. E che lo sarà con violenza crescente. Il punto è che siamo così abituati alla satira televisiva e agli insulti dei social da credere che la satira sia una forma di bullismo, perché il bullo, da sempre, anche a scuola, crea tribù sogghignanti. La risata è diventata il rito politico per esprimere il consenso dei ridenti intorno a un capo (comico). Non è un caso che il partito di maggioranza relativa alla Camera e al Senato sia stato fondato dal maestro della satira-bulla e che sulla satira bulla sia fondato. Credo, però, che esistano due tipi di satira: la prima, appunto, è una forma di bullismo, una messa in scena che, accusando e condannando un colpevole o una casta, assolve tutti quello che ne ridono. E’ un tipo di satira tranquillizzante, che non destabilizza, non genera dubbi ma rinsalda certezze. La seconda è la satira-specchio, l’unica che per quanto mi riguarda abbia valore, perché accresce la conoscenza degli uomini, quindi anche di sé.

 

Nel primo caso la risata offre sollievo, nel secondo procura fastidio. Nel primo è acquietante, nel secondo è inquietante. Tra gli esempi di satira-specchio si possono citare Altan, Vincino o Makkox, che disegnano sempre l’umanità che accomuna, anche nel ridicolo e nel vizio, i buoni e i cattivi. Tra gli esempi di satira bulla, oltre a Beppe Grillo, ci sono Crozza, Forattini o Travaglio quando storpia sistematicamente i nomi propri, non i ruoli, per negare agli avversari perfino l’appartenenza al genere umano. (E’ la stessa tecnica usata da Grillo quando chiamava zombie i politici, salvo poi sperimentare quanto zombizzarsi sia facile per tutti). Non è questione di bontà e cattiveria. La satira-bulla non è più cattiva della satira-specchio, anzi. E non lo è proprio perché è protesa verso l’auto assoluzione. Viceversa, la satira-specchio può essere violentissima e se non fa sconti al potere, non ne fa nemmeno a chi ride, perché chi ride ha sempre un potere.

 

Quando Jonathan Swift modestamente propose di mangiare i bambini poveri per sconfiggere la carestia, stava alzando uno specchio in faccia alla società a cui apparteneva per mostrare che il cannibalismo era perfettamente coerente con le premesse economiche e politiche del capitalismo. E Voltaire non scrisse Candide soltanto per ridere di Leibniz e del suo migliore dei mondi possibili. Lo scrisse, credo, per mostrare agli altri e soprattutto a sé stesso che ci si può aggrappare a qualunque religione, filosofia o ideologia, ma si rimane tutti comicamente e tragicamente mortali. Non è un caso che l’aggettivo “sardonico” derivi, si dice, dall’usanza degli antichi sardi di seppellire i propri morti ridendo.

 

La risata ha sempre qualcosa di demoniaco, perché si basa anche sul riconoscimento di sé e dei propri limiti, e in questo senso esprime pietà. Negli ultimi anni la satira politica e di costume, più che ai comici televisivi e ai vignettisti, viaggia su Internet, negli insulti e nelle shit-storm che a turno travolgono tutti, e spesso schifosamente le donne. Ma viaggia anche nei meme che si basano proprio sul riconoscimento di sé, delle proprie debolezze, mancanze, conformismi. Lo schema classico e basico del meme è associare un personaggio noto – reale o di fantasia, preso dai film, dalla tv o dai manga – a una situazione comune e quotidiana. Il comico scatta proprio sulla base della condivisione di un universo anche culturale (ed è il motivo per cui gli adulti, che da quell’universo sono esclusi, spesso non ridono). Dai meme che descrivono situazioni quotidiane e comuni, diffusi soprattutto tra bambini e adolescenti, si sta passando, soprattutto su Instagram, a una satira politica sempre più complessa, perfino difficile. Account come @sapore.di.male e @filosofia_coatta fanno un lavoro molto raffinato sulla politica italiana, anche da un punto di vista antropologico e linguistico.

 

E’ irresistibile, per esempio, il post di @filosofia_coatta in cui Alessandro Di Battista racconta la figura “ricorrente in diverse mitologie del Dib-bah” che “tra gli aborigeni si chiama Djibatista, tra i nativi americani il Diba-diba e rappresenta l’innocenza originaria che va uccisa come rito di passaggio”. O la risposta di Draghi alla domanda se il suo governo sarà tecnico o politico: “Sarà on demand”, “presto l’algoritmo genererà, per ognuno di voi, l’impressione di vivere nella forma di governo più congeniale”. Anche sui social, cioè, è possibile fare satira superando la logica della tribù, della casta, del capro espiatorio, dell’insulto e della bastonatura. La speranza è che, dopo decenni di egemonia bulla, possa ritornare una stagione di satira-specchio. Una satira di unità nazionale. Come ha detto Draghi nel discorso di ieri: “L’unità non è un opzione, è un dovere”. La satira non ha doveri, ma deve sempre ricordare che se il re è nudo lo è perché crede di essere quello che di lui credono gli altri. Perché, nel bene e nel male, è la proiezione dei sudditi. E che quando ridiamo del re, ridiamo sempre anche di noi.

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