Billy Porter (foto LaPresse)

Uno, dieci, cento sessi! Ecco gli Oscar dello xenofemminismo

Simonetta Sciandivasci

Nello smoking con gonna lunga e strascico di Billy Porter c’è un’interpretazione perfetta di un’idea di futuro che entusiasma alcuni e terrorizza molti altri 

Agli Oscar s’è visto moltissimo rosa, e infatti il New Yorker ha titolato “Hollywood thinks pink, pink, and more pink”. Non il colore del girl power, attenzione, bensì il Millennial Pink, che include molti rosa, ma non quello da Barbie Girl, del cui portato antropologico culturale è, anzi, l’antidoto. In Millennial Pink, che è la palette di colori del gender fluid, c’erano Helen Mirren (bellissima) e Jason Momoa (gigantesco), che insieme hanno annunciato il miglior documentario. “Di questi tempi un dio hawaiano e una donna inglese molto matura possono indossare lo stesso colore. Possiamo entrambi indossare il rosa”, ha detto Mirren.

 

 

Helen Mirren e Jason Momoa (foto LaPresse)

 

In nero c’era Billy Porter, che ha sfilato sul red carpet con addosso uno smoking con gonna lunga e strascico. “Chiamatemi Cenerentolo”, ha scritto su Instagram.

 

 

Billy Porter (foto LaPresse) 

 

Porter won the Oscars Red Carpet before it even began”, ha titolato sempre il New Yorker. Similmente La Repubblica: “Porter supera i generi e vince”. Chi vince su chi, su cosa? Il genderless sul gender fluid? E cosa vince? L’Oscar per la rappresentazione queer? Forse qualcosa di più. Nel vestito di Porter, buffo ma nient’affatto carnevalesco (però brutto sì, si può dire?), c’è un’interpretazione perfetta di un’idea di futuro che entusiasma alcuni e terrorizza molti altri. Quell’idea si chiama xenofemminismo ed è spiegata bene nel libro omonimo di Helen Hester, un lavoro affascinante e molto pazzo (“riot, come tutti i nostri”, ha detto Corrado Melluso della Nero editions, la casa editrice che lo ha portato in Italia), uscito lo scorso anno e appena pubblicato anche da noi.

 

La definizione prima di tutto. “Lo xenofemminismo è una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturista e abolizionista del genere”, al cui interno si mescolano molte riflessioni teoriche femministe e filosofiche degli ultimi anni (e non solo: s’arriva fino ai Settanta), insomma molti femminismi e molte idee di mondo che grazie al cielo (almeno) non procedono per hashtag (cyberfemminismo, postumanesimo, accelerazionismo, neorazionalismo, femminismo materialista – tutti nomi che un po’ fanno sorridere, ma di cui forse ci troveremo a discutere piuttosto presto, visto che un abito da red carpet li ha chiamati in causa più o meno tutti, consapevolmente o meno non importa).

 

Lo xenofemminismo vuole “formulare una politica di genere radicale adeguata a un’epoca di globalità, complessità e tecnologia”. Significa che questa teorizzazione non rifiuta la natura, né la ritiene un costrutto arbitrario dell’uomo (ed è qui il passaggio fondamentale che la differenzia da molte altre idee strampalate che negano il genere): nell’ottica xenofemminista, la natura è un ente mutabile, sul quale si può e si deve intervenire, per rinnovarlo, perché lo sviluppo umano lo destina all’obsolescenza. Per farlo, è necessario ricorrere alla tecnologia, e alla scienza, previa correzione politica di entrambe (“un completo regendering del sapere scientifico”, che ora come ora sarebbe in mani sbagliate, se non patriarcali certamente legate a uno schema di potere e suddivisione di ruoli e competenze basati sulla differenza sessuale, sul “questo lo fai perché sei maschio e quest’altro lo fai perché sei femmina”). Non si tratta di smascherare il naturale e mostrarne l’artificio, bensì di desacralizzarlo: “Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla è sacro tanto da non poter essere riprogettato e trasformato in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà”. In questo senso, la natura diventa uno spazio di contestazione, di mutamento e ribaltamento continuo: sono femmina? Bene. Non è detto che io lo debba essere per sempre. Non di sola biologia vive ed è fatto l’uomo.

 

Le condizioni naturali e la differenza sessuale che ne discende, scrive Hester, esistono ma stanno diventando sempre più oppressivi, incapaci di contenere quello che gli uomini e le donne vogliono diventare - “Non vogliamo eradicare i tratti di genere della popolazione umana, ma demolire le limitazioni all’identità di genere”.

 

A cosa pensiamo quando diciamo “noi”? Qual è il fattore che ci unisce? Il genere sessuale, evidentemente. Se lo abolissimo, saremmo più liberi? Finirebbe la dittatura del corpo su di noi (l’abbiamo vista agire per tutta la fase uno del Metoo, quando un capello sfiorato senza consenso era un abuso sessuale)? Finirebbero le discriminazioni o finirebbe soltanto la complessità, cioè praticamente tutto? “Che sboccino un centinaio di sessi!”, scrive Hester a metà del libro (aiuto! E poi cosa, un sesso ciascuno?), proprio quando una quasi s’è convinta che, senza maschi e senza femmine, non ci sarebbero teatrini disgustosi come quello di Non è l’Arena di domenica sera, con Alessandra Mussolini che per contestare il sessismo di Collovati a un certo punto ha piantato addosso a Luca Telese un grembiulino porno. Se dobbiamo abolire il binarismo sessuale per ricavare altri cento sessi no, scusi: a un centinaio di sessi sono preferibili l’obsoleto paio che conosciamo dalla Bibbia, più relative mescolanze, poco importa se malvestite.

 

P.S. Dice poi Hester che “il riconoscimento di innumerevoli generi è solo un primo passo verso il rifiuto di accettare qualunque genere come criterio di significato immutabile”. Che in teoria è vero, in pratica è un po’ una supercazzola.